Dolegna: una ghirlanda di case
(F. Tassin “Chiese del Collio” - TNX Andrea Nicolausic)
Il nucleo
compatto di Dolegna del Collio (municipio e chiesa fianco a
fianco) si presenta come una ghirlanda di case, uno spazio con due
porte, a Lonzano a sud, per Mernico a nord; un ambiente non ancora
del tutto compromesso, sul quale si affaccia, non senza
significato, il campanile vecchio e la chiesa “nuova”.
Una facciata semplice, lineare, in cui l’architetto Silvano
Baresi, sfrondando stili più antichi, ha ripreso qualche elemento
dell’antico, in essenziale purezza.
Non si sa da quando San Giuseppe sia il patrono della
chiesa di Dolegna, una cappella gli era dedicata nel Settecento
(se il culto è antico, l’interesse per San Giuseppe è più recente,
rafforzato soprattutto dai papi, da Pio IX a Giovanni XXIII, che
lo proclamò protettore del Concilio).
Tutte le chiese hanno una storia fatta di popolo, e di
gente che può. Questa ne ha una antica e una recente, particolare.
La prima è narrata da una lettera del cappellano di
Cosbana. Siamo al 24 maggio 1766, già da qualche anno c’è
movimento per la nuova chiesa. Si sta per iniziare, mancano
all’appello soldi promessi, non c’è la calce. Il cappellano, per
incarico di Carlo Michele d’Attems, primo arcivescovo di Gorizia,
si reca in Povia di Cormons per incontrarsi con Domenico Grinover.
Ha con sé una lettera del presule Goriziano; la missione tende a
fargli mantenere una promessa: duecento ducati in materiali per la
nuova chiesa. L’uomo, all’inizio, si chiude, non ne vuole sapere:
aveva promesso, ma se tutto fosse cominciato subito… invece,
nessuna novità a tre anni! Si era convinto della necessità di un
luogo di preghiera per la pochissima devozione degli abitanti
“…quasi tutti Luterani e peggiori d’essi”, e spiega la
definizione: “…fra molti non ho trovato altro che soli tre avere
la corona… frequentissimi in osteria e quasi mai in chiesa…”. Il
sacerdote lo rassicura e lui cede: duecento ducati in materiali,
ma niente calce, impegnata per la chiesa matrice di Cormòns di cui
è cameraro. Gli dà, anche, altri preziosi consigli e aggiunge che
un altro aveva promesso 50 ducati: Giacomo Moretti “chirusico”;
anche lui si era raffreddato, ma una lettera di sua eccellenza
avrebbe potuto “riscaldare il suo forsi già perduto fervore”.
Altre difficoltà si frappongono all’inizio dell’opera,
e la mancanza della ricordata calcina. Si va informando dove si
possa acquistare “mentre quest’anno niuno accende fornaci in
queste vicinanze”. Per dire quanto la costruzione sia legata alle
circostanza, il cappellano ragguaglia il superiore del fatto che
fino al momento la parrocchia è “restata libera dalla gragnola”.
Comincia nella seconda metà dell’Ottocento la storia
più recente, quando l’Imperatore Francesco Giuseppe manda duecento
fiorini per la fabbrica della chiesa, ma si tratta forse di
consistenti restauri.
La necessità, non più rinviabile, di parlarne concretamente si
presenta nel 1909: pratiche su pratiche, finchè, nel 1913, il
Ministero impone modifiche al progetto per conservare alcuni
aspetti della chiesa vecchia.
Scoppia la guerra: arrivano le truppe italiane; dell’edificio
sacro fanno un carcere militare (le funzioni si svolgono in una
chiesa- baracca, costruita dal genio).
Con la pace, iniziano i restauri. Nel 1926, una
assemblea di capifamiglia decide, entusiasta, di riprendere l’idea
del nuovo edificio. In tempi incredibilmente brevi si demolisce e
si riedifica, con il corale contributo della gente: il 23 ottobre
1927 il principe arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej la
consacra.
Che cosa significasse una chiesa nuova, allora, è
testimoniato da colui che resse (più tardi) per molti anni, pre
Tite Falzari, marianese, cultore della storia degli umili.
Racconta di doni in paramenti e suppellettili, giunti da tutta la
diocesi (nell’incendio della cappella provvisoria, il 22 luglio
del 1927, si era perso quasi tutto), e della prima grande festa
per la benedizione della nuova statua di Santa Teresa del Bambin
Gesù. Per la Santa, c’era stata una gran festa, con migliaia di
persone: portata da Lonzano su di un carro tirato da due cavalli
bianchi, in corto sotto gli archi di verde…
Nella chiesa, il passato, la tradizione, non come
ricordo, ma continuazione, sono rappresentati in qualità: la pila
dell’acqua santa, primo contatto (acqua lustrale e ricordo
dell’acqua battesimale), che nella pietra vede incisa una
conchiglia stilizzata, un ceroferario, antico, più volte riparato
(di pietra perché il cero, oltre agli alti importanti significati
simbolici, rappresentava la comunità quando il Sabato santo si
andava alla chiesa matrice); il paliotto dell’altar maggiore (la
parte rivolta ai fedeli che ricordava la preziosità nell’avvolgere
l’altare). |