INTERVISTA CON MONS. LUIS INFANTI DELLA MORA,
VESCOVO DI AYSEN, IN CILE, PER TUTTI «IL VESCOVO
DELL’ACQUA»
(Anna Piuzzi -
www.diocesiudine.it/)
Il suo nome, per tutti, è legato alla battaglia per
l’acqua. Mons. Luis Infanti Della Mora, padre
servita, originario di Campomolle di Teor, è vescovo
di Aysen, vicariato apostolico nella Patagonia
cilena. In questi giorni è in Italia per portare la
testimonianza della sua Chiesa in prima linea per la
custodia del creato. Durante la sua tappa in Friuli
lo aspetto, senza preavviso, nella sede udinese dei
padri Saveriani, di lì a poco, infatti interverrà a
«Solidarietà per azioni», il corso di formazione per
volontari del Centro missionario diocesano. Lo vedo
arrivare e lo riconosco subito, ma chissà perché non
mi aspettavo un uomo così alto. Gli chiedo se posso
intervistarlo. Con un sorriso aperto mi dice di sì e
che possiamo restare all’aria aperta, seduti sul
muretto. Il vicariato apostolico di Aysen conta un
territorio grande quanto l’Italia settentrionale, ma
abitato da appena 100 mila persone. Da un decennio
questa regione è al centro degli interessi di grandi
multinazionali che mirano a sfruttarne le risorse
naturali. In primis l’acqua. In particolare c’è
l’Enel che attraverso la controllata Hidroaysen
intende costruire cinque grandi dighe per produrre
energia elettrica da trasportare con una linea di
2300 chilometri agli impianti minerari nel Nord del
Paese. È in questo contesto che s’inserisce
l’operato di mons. Infanti Della Mora che si oppone
allo sfruttamento dell’Aysen e che nel 2008 ha
scritto una lettera pastorale dal titolo «Dacci oggi
la nostra acqua quotidiana», un documento a dir poco
profetico. Seduti su quel muretto, ascoltarlo
parlare è un po’ come respirare quella Chiesa
latinoamericana che Papa Francesco ci ha fatto
conoscere, scomoda per molti, impegnata con tutta se
stessa nella promozione umana, nella difesa degli
ultimi, delle periferie del mondo.
Anche lei come Papa Francesco viene «dalla fine del
mondo», ci racconta qual è la situazione in Aysen?
«Si tratta di una regione che, come molte altre del
Sudamerica, è molto appetitosa per le grandi
multinazionali, in un mondo globalizzato le terre così
poco densamente popolate e ricche di tanti elementi
naturali suscitano il loro interesse. Tra esse c’è
l’Enel che in Cile è proprietaria dell’acqua al 96%, un
fatto questo reso possibile, anzi facilitato, dalla
Costituzione stessa approvata da Pinochet nel 1980».
Lei ha preso una chiara posizione in merito, si è
speso in prima persona.
«Certo, perché sentiamo che la chiesa e il Vescovo, come
insiste Papa Francesco, hanno una responsabilità non
solo spirituale, morale, pastorale ed etica, ma anche
sociale. Siamo cioè parte attiva della società, abbiamo
la capacità critica e propositiva di influire sulle
decisioni politiche, economiche, sociali e culturali.
Questo, si badi bene, sempre a partire dalla fede, da
una visione evangelica della realtà. In questi anni, in
cui sono proliferati i progetti attraverso i quali le
multinazionali vogliono appropriarsi del Sud del Mondo –
parliamo di America latina, ma anche di Africa –, sento
che come Chiesa abbiamo più che mai una responsabilità
sociale, abbiamo il dovere di rompere quell’indifferenza
della società consumista che porta a vivere senza
pensare a che mondo stiamo costruendo e che quali
conseguenze possono avere sul domani le decisioni che
prendiamo oggi».
In «Dacci oggi la nostra acqua quotidiana » una delle
parole che ricorrono più frequentemente è proprio
«responsabilità». È un richiamo forte anche a noi fedeli
di una Chiesa tanto distante da quella di Aysen, da cui
abbiamo molto da imparare perché forse abbiamo
dimenticato l’importanza e il valore di quella parola.
«Io non posso giudicare l’impegno di una Chiesa rispetto
a un’altra perché le realtà sono molto differenti. Però
se Dio ci ha dato due occhi e due orecchie è perché
abbiamo l’esigenza di guardare in profondità la realtà e
ascoltare la voce di Dio. Questo è pregare. Non solo
cioè recitare formule. Pregare significa ascoltare Dio
che ci parla attraverso le urla delle persone, dei
popoli, degli emarginati della terra. La seconda parte
di questa preghiera è rispondere alle necessità che
abbiamo visto e ascoltato. Quindi ogni Chiesa dovrà
saper guardare in profondità quello che sta succedendo,
vedere soprattutto le cause delle situazioni che si
presentano in ogni luogo e rispondere non come un
partito politico, o un club culturale, ma come comunità
di cristiani mossi dalla fede e dall’esperienza di altre
comunità».
Nel 2012 Lei ha scritto anche un altro
importantissimo documento dal titolo significativo «La
fede e la politica si abbracciano ». Che messaggio
voleva lanciare?
«Innanzitutto va detto che si inserisce nell’Anno della
Fede che non è stato solo un momento per definire meglio
le verità di fede, perché quelle già da secoli sono
definite, approfondite e celebrate. L’Anno della fede ci
portava a vedere che importanza ha la fede oggi nel
mondo in cui viviamo. In Aysen quindi è stata fatta una
riflessione anche a partire dal Ministro degli interni
del Cile che a un certo punto mi ha detto “è bene che il
Vescovo si dedichi alla preghiera”. Questo perché come
Chiesa avevamo preso determinate posizioni e partecipato
a un movimento sociale importante, massivo e unitario,
che esigeva migliori condizioni di vita. Sottolineo che
“esigeva”, non “chiedeva”, perché ho imparato che la
giustizia non si chiede, ma si esige perché è un diritto
delle persone ed è un dovere di chi ha l’autorità di
promuovere la giustizia e instradarla con leggi,
decisioni che la rendano possibile. Quindi, stimolato da
questa insinuazione pubblica del Ministro, ho scritto
che la fede si deve tradurre in opere, in presenze e
decisioni - ed evidentemente ogni decisione di fede ha
risvolti sociali e politici come lo hanno anche le
decisioni di fede non prese -. In questo contesto è
dunque nata questa lettera che sottolinea come per
essere fedeli a Gesù e per seguire il Vangelo è
necessaria l’opzione per i poveri, per le persone più
emarginate, sconfitte dalla società».
Siamo a un anno di pontificato di Papa Francesco,
quanto della Chiesa Latinoamericana, penso ad esempio al
documento di Aparecida, ha portato il Santo Padre nella
nostra quotidianità?
«Moltissimo. Aparecida è stato l’ultimo incontro, alcuni
anni fa, dei Vescovi del- l’America Latina, per
imprimere alla storia dell’America latina un marchio di
fede. Papa Francesco lo sentiamo come un fedele
portavoce nel senso epserienziale di una Chiesa che
vuole essere attiva, dinamica, fedele a Gesù. Uno stile
di Chiesa che se la pensiamo a livello globale nel mondo
era stata un po’ silenziata per favorire una Chiesa più
dottrinale, legalizzante che è un aspetto, ma come
enfatizza Papa Francesco non è il principale. La fede
non può essere inquadrata solo in leggi e decreti
morali, la fede è la gioia di vivere l’esperienza di
Gesù e comunicarla agli altri, entusiasmarli, vivere in
felicità e senza emarginare nessuno, facendo tutti
partecipi della bellezza della vita, dei doni della
creazione».
Ringrazio il Vescovo dell’Aysen, il tempo è volato e
voglio lasciarlo ai suoi impegni. Ma è contrariato: «Già
finito? Nemmeno una domanda sull’Udinese?», mi chiede
ridendo. Rimedio subito. «In Patagonia il Vescovo tifa
“bianconero”?» gli chiedo. «Ma è evidente! Seguo sempre
l’udinese, e se gli orari lo permettono anche in
diretta». E sorridendo aggiunge: «Soprattutto quando
vince!». |