ROCCA BERNARDA: IL
SITO E LE VICENDE
"PER ORNAMENTO DI QUE NOSTRI
COLLI"
Tratto dal volume «Premariacco e il suo territorio -
Testimonianze storiche» di Amelio Tagliaferri, Mario Brozzi,
Novella Cantarutti, Luigi De Biasio, Cornelio Cesare Desinan,
Carlo Gaberscek e Bruno Polese. Opera edita a cura
dell’Amministrazione comunale di Premariacco con il
contributo della Cassa Rurale ed Artigiana di Manzano. |
Il panorama della
Rocca Bernarda nel 1914, allorché Giacomo Perusini (la cui
famiglia possedeva terreni nella zona, verso Ipplis e a
Gramogliano) acquistò l'intera proprietà, non era ameno: egli
cominciò l'opera di
bonifica e di reimpianto dei vigneti che, fin
dall'antichità, costituivano la vocazione di questi luoghi. Quella
che segue è la testimonianza di Giuseppe Cecotti, uno dei coloni
di famiglia residente sulle terre di proprietà Perusini fin dal
1870; e non è certamente per qualche tentazione del pittoresco che
il quadro d'un momento di Rocca Bernarda è affidato alla voce e
alla memoria d'uno che in quella terra nacque, lavorò e ne vide le
vicende durante l'ultimo mezzo secolo.
"Cence aghe,
cence lùs e cence stradis; dome
di pantan e' arin, che lavin i bûs
in sot fin a miege gjambe; lis
ruedis dal cjâr no si cognossevin.
E' vivevin cu lis pomis
e puare mâ none
'e contave che lavin a vendi
lis ciariesis fin a Udin
o ben a Curmons, a pît, cu la cjàrie. A' erin pocjs vîs e lis
tiravin su pai ôi.
Al a tacât a plantà vigne il pari dal professôr: lui al
vignive a cjaval di Udin e
a lis cinc di matine e' vevin
di jessi pronz i bûs e a'
tacavin a arà. Lui al ere professôr
di agricolture, ma al tignive ancje la uàrgine".
(Senza acqua, senza luce e senza strade; solo di pantano erano,
tanto che i buoi sprofondavano fino a mezza gamba; non si
individuavano più le ruote del carro. Si viveva grazie alla frutta
e la mia povera nonna raccontava che andavano a vendere le
ciliegie a Udine o anche fino a Cormons, a piedi, col carico.
C'erano poche viti e le facevano crescere attorte agli olmi. Ha
cominciato a piantare vigna il padre del professore: lui veniva a
cavallo da Udine e, alle cinque del mattino, dovevano essere
pronti i buoi per cominciare ad arare. Lui era professore di
agricoltura, ma teneva anche l'aratro).
Il racconto del Cecotti risponde alla descrizione che
Giacomo Perusini pubblicava nel 1914 nel "Bollettino
dell'Associazione Agraria Friulana": "La tenuta è in uno stato di
completo abbandono, mancano strade e fabbricati; terreni e
piantagioni sono in condizioni pietose; assenza completa di scoli.
Da per tutto sulle pendici acacie, ontani, arbusti di ogni specie
crescono spontanei e indisturbati formando piccoli boschi in mezzo
ai quali sopravvivono stentatamente viti e alberi da frutto. In
alcune parti pianeggianti l'acqua ristagna e in altre scorre
violentemente asportando buona terra e quindi ogni temporale
arreca nuovi danni.
L'antica strada di accesso alla proprietà è in
condizioni orribili e, in alcuni tratti, nei giorni piovosi,
assolutamente impraticabile; bestie e veicoli sprofondano
nell'argilla molle e tenace". A sud-est di Cividale, il Natisone,
correndo ormai in piano, lambisce le ultime propaggini dei colli
in mezzo ai quali si alzano le torri rosse di Rocca Bernarda;
quest'area mossa e amena costituiva il comune autonomo di "Ipplis
con Azzano" (secondo la denominazione del Catasto napoleonico)
aggregato a quello di Premariacco nel 1929. La zona emerge dal
silenzio della preistoria con i segni della organizzazione romana
del territorio di Forum Julii e la conseguente lottizzazione e
coltivazione delle terre. Azzano, come altri numerosi toponimi dei
dintorni, si riconduce al nome di un colono forse a cui venne
assegnato un praedium. Proprio per il piccolo borgo di
Azzano doveva passare un tratto della strada che, provenendo da
Aquileia, per Buttrio e Manzano, si dirigeva all'antico guado del
Natisone e a Cividale, per imboccare poi la valle. Tracce, reperti
e tombe romane attestano poi l'esistenza di percorsi stradali
minori (Gagliano, Spessa, Corno di Rosazzo, Cormons) che
s'incrociavano nel territorio dove allignavano la vite e l'olivo
che allieta ancora i colli di Rocca Bernarda. "I colli di Rocca
Bernarda erano già coltivati a viti nell'epoca romana, come
testimoniano i frammenti di anfore da vino ritrovati nei terreni".
Cosi scriveva, in una sua pagina, Gaetano Perusini che fu (almeno
per chi ne parla oggi) l'ultimo signore del luogo: continuando
l'opera avviata dal padre restituì ad una razionale coltura della
vite i ronchi che circondano la villa e riuscì a produrre vini
particolarmente pregiati. Alla sua morte, la proprietà passò al
Sovrano Militare Ordine di Malta che provvede alla cura
dell'Azienda agricola per la produzione dei vini, ma che non ha
trovato ancora una destinazione conveniente alla villa.
Dire che si conclude la vita di
una dimora o di un luogo può apparire improprio, ma, in questo
caso, la scomparsa di Gaetano Perusini che univa all'esperienza in
agricoltura ed enologia una conoscenza approfondita della storia e
delle tradizioni del popolo friulano (era ordinario di Storia
delle tradizioni popolari all'Università di Trieste) segna
veramente la conclusione di un arco entro cui si è realizzato
armonicamente un rapporto tra terra e uomini, perché il professor
Perusini aveva reso la Rocca alla funzione per la quale essa era
sorta nel Cinquecento, in quel luogo e in un determinato modo.
L'origine della villa infatti è legata alla volontà e al gusto di
un dotto, Jacopo di Valvason - Maniago, e del fratello di lui
Bernardo che la costruirono col proposito di godere l'amenità del
sito, rendendola accogliente e valorizzando, nei ronchi intorno,
la cultura delle vigne.
..................................
La Rocca restò in proprietà dei Valvason-Maniago fino al penultimo
decennio del Settecento, quando passò a Margherita, contessa di
san Foca, nella quale si estingueva il ramo; avendo lei sposato il
conte Francesco Riccati di Castelfranco, la Rocca passò in eredità
ai suoi figli, mentre il palazzo di via Aquileia coi bei fregi di
Giovanni da Udine andò venduto da altri eredi.
All'inizio
dell'Ottocento, Rocca Bernarda pervenne nelle mani di Margherita
Antonini di Patriarcato, per il tramite della madre nata Riccati;
ultima della sua famiglia, sposò nel 1803 il barone Grazio di
Belgrado, e non ebbe figli. Margherita Antonini fu un personaggio
di rilievo, in Udine, nel periodo convulso che vide avvicendarsi
in Friuli Francesi e Austriaci; ospitò, nel palazzo di piazza
Patriarcato, gli uni e gli altri, rendendosi grata a
Napoleone. Doveva peraltro essere aperta alle idee liberali che
non sembrarono declinare né in lei né in suo marito, quando
scomparve Napoleone e l'Austria riaffermò stabilmente il suo
dominio in Friuli, attenta a qualsiasi moto o sussulto che ne
turbasse la quiete. Scrive G. Perusini che Rocca Bernarda divenne
allora per gli amici di Margherita, forse tenuti d'occhio dalla
polizia austriaca, un tranquillo luogo d'incontro. La nobildonna
visse a lungo durante anni certamente meno brillanti e forse
difficili per lei che si trovò a contendere per la salvaguardia
dei suoi interessi. Dopo la sua morte la tenuta di Rocca Bernarda
risulta oberata da debiti (1862) messa all'asta e "venduta in
spezzati"; la parte comprendente la villa fu rilevata nel 1873 da
Leonardo Mareschi e passò, nel 1897, a Carlo Cambiagio (*).
Lapide del 1559 che ricorda la
costruzione delle cantine La Rocca Bernarda
cominciò la sua ultima stagione - come si è scritto all'inizio -
allorché Giacomo Perusini venne in possesso della villa e
dell'intera tenuta, nel 1914. Egli ne avviò il lavoro di bonifica
con entusiasmo e competenza; la morte che lo colse prematuramente
nel novembre del 1915, ne interruppe l'opera. La vedova,
Giuseppina Antonini, con due giovanissimi figli Giampaolo e
Gaetano, si trovò ad assumere la conduzione dell'azienda,
esperienza difficile in sé e resa più ardua dalla gravita del
momento: l'Italia era in guerra e il fronte correva vicinissimo
lungo la linea delle Alpi e sul Carso. Quasi centenaria, la
signora Perusini ripercorre quegli anni, nel più bel capitolo di
Un secolo nella memoria, il libro dove racconta la sua
lunga e travagliata vita nella quale Rocca Bernarda, la dimora e
la terra, ha una parte considerevole come sfondo non soltanto dei
casi privati ma degli eventi più grandi che giovano a determinarli
almeno in parte.
"La nostra casa alla
Rocca era in zona di operazioni. Ci volevano permessi per entrare
e uscire e, pur sapendo che lassù non avrei potuto vedere né amici
né conoscenti, decisi di andarci. Dovevo affrontare l'immensa
fatica di rimettere in ordine la tenuta [...] c'era il continuo
disordinato passaggio di truppe che spesso si accampavano nella
tenuta.
Appoggiata alla mia
finestra, ogni sera vedevo passare gli automezzi che andavano e
venivano da Cormons e attendevo l'auto che riportasse alla Rocca
mio marito: un'attesa ostinata e irragionevole. La notte era
illuminata da riflettori che, dalla terra, si allargavano nel
ciclo buio, per frugare in profondità e scoprire le minacce che
anche da lassù colpivano; i fasci di luce arrivavano anche nella
mia camera, toccavano il letto, mentre i cannoni e le
mitragliatrici facevano rintronare la notte.
[...] In pochi minuti
preparammo le valigie, tre per cinque persone. Attaccammo un
cavallo al break. Io avrei guidato il tonneau [...]
Partimmo [da Udine], ma con che animo? L'incredibile notizia
dell'invasione nemica, della guerra perduta o che si stava per
perdere, era un colpo inaudito. Con uno sforzo mi allontanai da
dove ero nata. Traversai vie deserte che di colpo erano diventata
luogo di pericolo e di minaccia. Una folata di terrore stava
trascinando lontano, in esilio, l'intera popolazione. Dietro di
noi, lungo l'arco delle colline, il ciclo era offuscato dal fumo
di grandi incendi; stavano bruciando i magazzini militari. Lassù
in collina lasciavo un'altra casa con tanti dipendenti e contadini
cui avevo spiegato la gravita della situazione e consigliato di
partire, possibilmente col bestiame. Il mio dovere non era di
restare al mio posto, a capo dell'amministrazione, a dividere la
sorte dei dipendenti? Ma ero una donna sola con due figli da
salvare. Usciti ormai dalla città deserta trovammo che la strada
per Venezia era talmente ingombra di militari con carriaggi e
cannoni, di civili con mezzi di trasporto di ogni genere, che non
era possibile proseguire. Prendemmo vie secondarie passando vicino
al cimitero già chiuso. Dietro il muro di cinta, accanto
all'ingresso c'è la tomba di famiglia: qui il mio cuore sembrò
spezzarsi: abbandonavo anche i miei morti. Quando avrei potuto
nuovamente pregare su quella tomba?
Più avanti incontrammo
gruppi di soldati che si disperdevano nei campi senza armi, senza
giberne, senza stellette. Non c'era dolore o tristezza in quei
volti, cantavano: "Addio, mia bella addio, la pace la fo io". Che
cos'era questa ritirata? Una sconfitta militare o la fuga
disordinata di un esercito in dissoluzione? Il mio cavallo
trottava tranquillo e lentamente mi allontanavo. Attraversò la
strada un gruppo di sottufficiali senz'armi, all'aspetto
sembravano persone civili. Uno si appoggiò alla mia vettura, mi
fissò a lungo, ma non aprì bocca e si allontanò attraverso i
campi".
Nelle pagine, la tragedia
di Caporetto, la fuga dal Friuli sono raccontate con la lucidità
che contraddistingueva questa signora ferma e intrepida che, alla
Rocca, muore il 19 dicembre 1975. Era stata costretta ad
abbandonarla nel 1917 e si trovò a ripetere l'esperienza nel 1943;
per tre anni s'avvicendarono nella villa partigiani, tedeschi,
americani. Lascio ancora a lei raccontare il ritorno nel 1946:
"Non ho nessuna fretta, direi nessun desiderio di ritornare alla
Rocca per vedere, constatare le rovine avvenute nella casa, i
danni nella tenuta; penso che anche gli animi, lo spirito dei
contadini potrebbe essere molto cambiati, con l'avvicendarsi di
tanti importanti avvenimenti.
Decido di ritornare il
giorno di San Bernardo, 20 agosto festa del patrono della cappella
del castello [...] Penso: "Come saranno accolti questi padroni che
ritornano?" Quando giungo, trovo nel cortile dell'amministrazione
tutti i contadini vestiti a festa. Le donne, quando scendo
dall'auto, si avvicinano commosse e tutte mi baciano, vedo anche
lagrime nei loro occhi. Il più vecchio contadino vuole anch'egli
abbracciarmi. Con amarezza, angoscia e anche terrore raccontano
quanto hanno sofferto e gli orrori di cui sono stati testimoni. Ho
calcolato di essere di ritorno a Udine per il mezzogiorno, invece
trovo nel salotto tre lunghi tavoli preparati e Meni, il gastaldo,
dice che i contadini ci offrono il pranzo. L'inaspettata e tanto
gentile dimostrazione mi da grande conforto".
In quei giorni d'agosto
del 1946 Giuseppina Perusini compie settant'anni; comincerà a
lasciare le cure di conduzione dell'Azienda al figlio Gaetano per
dedicarsi con gusto e impegno alla pittura che l'aveva attratta
fin dalla giovinezza, e alla pagina scritta, prima, per
raccogliere le vecchie ricette friulane che uscirono nel volume
Mangiar Friulano e più tardi, per fermare le sue memorie nel
libro da cui ho tratto i passi riportati sopra.
Gaetano Perusini,
riacquistando a poco a poco la salute gravemente compromessa da
una malattia contratta durante la campagna di Libia (1940-1943),
attese seriamente all'ammodernamento della tenuta. Laureato in
scienze agrarie, si propose di continuare l'opera del padre
attraverso il rinnovamento sistematico delle vigne, la cura dei
vitigni pregiati e primo fra tutti, il Picolìt che grazie a lui
soprattutto riacquistò la fama e il mercato che rispondeva alla
sua qualità di vino di raro pregio. L'attività di G. Perusini non
si limitò alla conduzione dell'azienda domestica che, pur
interessandolo, lo distoglieva dagli studi storici che
rappresentavano la sua vocazione. Trovò tuttavia modi di comporre
entrambe le esigenze, e di coltivare un settore che gli era
congeniale: l'indagine delle tradizioni popolari. In questo campo,
approfondì gli studi col proposito di illuminare la storia non
scritta dei Friulani sulla loro terra. Non a caso s'intitola
Vita di popolo in Friuli il volume uscito nel 1961 dove si
chiarisce l'orientamento di Perusini, nella pluralità degli
interessi che ebbe, e che la lettura delle molte voci della sua
bibliografia rende evidenti. Prendendo in considerazione fatti e
fenomeni in apparenza trascurabili oppure oggetti minuti della
cultura materiale, non circoscriveva il discorso, ma lo apriva,
ancorandolo sempre alla garanzia del documento, a riferimenti e
comparazioni in ambiti più larghi e meglio approfonditi. Per
questo, la sua opera esce dalla chiusura provinciale e lo rivela
qual era, esigente con se stesso e con gli altri, e nemico del
dilettantismo a cui era ed è soggetta la sua materia. Conseguita
nel 1962 la libera docenza in Storia delle tradizioni popolari,
insegnò alla Facoltà di lettere dell'Università di Trieste,
pervenendo, nel 1975, all'ordinariato.
Significativamente, alla
attività di studioso, egli affiancò quella di collezionista e di
bibliofilo: le sue raccolte sono complemento e documentazione
degli studi e vanno dai manoscritti, ai libri rari, agli opuscoli
introvabili; comprendono poi gli elementi del costume popolare di
varie zone, i mobili, la suppellettile domestica, gli arnesi da
lavoro sottratti spesso alla distruzione (conservati ora al Museo
di arti e tradizioni popolari di Udine). La massa di documenti
riguardanti il Friuli, salvati spesso in extremis dalla
dispersione di archivi pubblici e privati è custodita presso
l'Archivio di Stato di Udine, mentre la biblioteca che comprendeva
anche codici manoscritti ed edizioni antiche e rare ha trovato
dimora presso l'Università di Udine che ne cura il riordino. Negli
ultimi due decenni l'interesse di Perusini si appuntò sul gioiello
tradizionale; la grande e si può dire, unica collezione è stata
affidata alla Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone.
Il Sovrano Militare
Ordine di Malta destinatario dei beni di G. Perusini, ne ha
rispettato la volontà lasciando la sua eredità culturale in Friuli
dove può essere valorizzata e studiata secondo gli intendimenti
per i quali egli l'aveva raccolta e andava raccogliendola, quando
la vita gli fu tolta il 12 giugno 1977. |