L’Abbazia
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Posta in alto sui
colli di Manzano, l’abbazia di Rosazzo offre uno splendido
panorama dai monti al mare, ma dominava anche dal sec. XIII le
vie di comunicazione tra Cividale e Gorizia. Le sue origini sono
controverse, la leggenda narra che fu fondata nel 800 d.C. da
Germanico l’Eremita che nel luogo solitario costruì una cella e
un oratorio attirando altri fedeli. Tra il 1068 e il 1070 fu
costruita una chiesa dedicata a san Pietro e intorno al 1100 il
monastero fu elevato al rango di abbazia dal patriarca di
Aquileia Ulrico di Eppenstein. L’abbazia benedettina ebbe dunque
stretti rapporti con i monasteri benedettini della Stiria e
della Carinzia. Raggiunse il massimo splendore nel sec. XIII
quando fu posta sotto il potere diretto del papato con
giurisidizione spirituale e amministrativa.
Nel sec. XIV assunse un aspetto di fortezza con torri e
mura di difesa, trovandosi al centro delle lotte tra il
Patriarca Ludovico di Teck e la Repubblica di Venezia prima e di
quest’ultima con gli imperatori d’Asburgo nel sec. XVI. Fu
l’abate Gian Matteo Giberti, arcivescovo di Verona, a iniziare
la ricostruzione dell’abbazia insieme con i collaboratori
Venceslao Boiani e Francesco Berni. Nel restauro della chiesa
nel 1535 fu chiamato il pittore Francesco Torbido, seguace di
Giorgione che decorò l’interno con affreschi.
Dopo l’abolizione del Patriarcato di Aquileia nel 1751,
l’abbazia passò all’Arcivescovo di Udine e dopo 248 anni di
servizio i Domenicani, succeduti ai Benedettini, lasciarono il
monastero. Emanuele Lodi trasformò l’Abbazia in una villa,
residenza estiva degli Arcivescovi di Udine, apportando
significative trasformazioni. A Rosazzo soggiornarono Papa Pio X
e, durante la I guerra, Vittorio Emanuele III, il Duca d’Aosta,
Elena di Savoia visitarono l’ospedale da campo qui allogato. Ciò
che rimane dell’antico monastero è l’ala orientale, restaurata
nel 1985, le celle del livello superiore, il chiostro
cinquecentesco con i vani annessi.
Da Villa Manin a Rosazzo
Secondo una suggestiva ipotesi, il ciclo di statue proverrebbe da
Villa Manin
e sarebbe stato un dono della famiglia o del doge di Venezia
all’Arcivescovo di Udine,
nominato nel 1754 marchese di Rosazzo
(GABRIELLA BUCCO -
La
Vita Cattolica del 20 Giugno 2009)
SAREBBERO STATE un regalo dei Manin o del doge di Venezia,
all’Arcivescovo di Udine le sedici statue delle Virtù che dalla
metà del Settecento fanno bella mostra di sé sul Belvedere
dell’abbazia di Rosazzo. L’ipotesi è stata formulata in occasione
del restauro del ciclo scultoreo effettuato nell’estate del 2008
grazie al contributo regionale e al generoso intervento della
Fondazione Crup, che ha accolto l’appello dell’Arcidiocesi di
Udine per il ripristino dell’apparato decorativo, seriamente
danneggiato dalle forme di degrado tipiche dei manufatti lapidei
esposti agli agenti atmosferici.
La presentazione del restauro si terrà giovedì 25
aprile, alle 18.30, in Abbazia, alla presenza di Daniela Cisilino
e Luisa Fogar, le restauratrici della ditta Arecon che con le loro
collaboratrici hanno condotto i lavori, di mons. Igino Schiff,
presidente della Fondazione dell’abbazia, del rettore della
stessa, mons. Remo Bigotto, e del Presidente della Fondazione Crup,
Lionello D’Agostini. Il laboratorio di restauro ha agito in
collaborazione con Maria Chiara Cadore, che ha seguito i lavori
per conto della Soprintendenza per i B.A.P.P.S.A.E. e con mons.
Sergio di Giusto.
Per l’occasione sarà anche pubblicato proprio su questo
restauro il primo volumetto de «I quaderni dell’abbazia», una
collana curata da Denise Trevisiol per conto della Fondazione
Abbazia di Rosazzo.
A parere di Cisilino e Fogar, le opere restaurate si
collocano nell’ambito della statuaria da giardino che ha come
punto di riferimento la complessa decorazione del parco di Villa
Manin di Passariano, attribuito da Francesca Venuto allo scultore
settecentesco veneziano Giovanni Bonazza con l’aiuto dei figli
Tommaso e Antonio.
La ditta Arecon aveva anche restaurato le statue del
giardino interno del palazzo Patriarcale di Udine, ma a parere di
Daniela Cisilino «mentre a Udine è stato possibile ricostruire
l’iconologia che abbinava alle virtù canoniche, le allegorie delle
parti del giorno e dei continenti, volte a esaltare la famiglia
Dolfin, committente dell’opera, a Rosazzo non è stato possibile
ricostruire il significato simbolico dell’insieme scultoreo che
appare molto disomogeneo». Non sempre i basamenti di pietra
piacentina riportano l’identificazione delle statue, spesso
mancano gli attributi che potrebbero dar loro un nome tanto che
studiosi e restauratrici avanzano l’ipotesi che le sculture
potrebbero provenire dal complesso di villa Manin. Secondo una
suggestiva ipotesi, priva peraltro di riferimenti documentari,
potrebbero essere state un dono del doge di Venezia o
dell’influente famiglia Manin, all’arcivescovo di Udine, nominato
nel 1754 marchese di Rosazzo detentore, a seguito dell’abolizione
del patriarcato di Aquileia nel 1751, dei diritti sul monastero e
sui beni di Rosazzo. Ne consegue anche l’attribuzione delle sedici
statue dell’abbazia ad Antonio Bonazza, figlio di Giovanni attivo
proprio a Passariano, specializzato nella statuaria da giardino in
cui gli stessi modelli erano ripresi da diverse botteghe e autori,
trattandosi di una produzione artistica quasi di serie.
Le allegorie dell’Umiltà e dell’Amicizia accolgono, non
a caso, chi entra dal cancello di ingresso invitando a tali
disposizioni d’animo. Le altre statue poste sul Belvedere
raffigurano l’America, l’Aurora, Cleopatra, l’Obbedienza, la
Cortesia, la Maestà, la Bontà, la Clemenza, il Dispregio del
piacere e altre cinque non identificate. Nel corso del restauro
quattro statue sono state ricollocate sulla parte nobile del
Belvedere con il parere favorevole della Soprintendenza. Una
statua era conservata nel cortile, le altre tre erano state
disposte sul muro d’ingresso seminascoste dalla vegetazione
probabilmente a seguito del crollo, avvenuto negli anni ’50, dei
muri di contenimento che avevano spezzato alcune statue, malamente
rabberciate con grappe in ferro. Le statue di Rosazzo sono state
realizzate in pietra tenera di Vicenza e risultavano danneggiate
da un degrado chimico fisico, dovuto gli agenti atmosferici,
soprattutto alla pioggia che aveva trasformato in alcuni punti il
carbonato di calcio in bicarbonato e quindi in solfato di calcio,
cioè in fragilissimo gesso. Licheni e muschi erano poi cresciuti
sulla superficie scabra e porosa alterandone l’aspetto e il
colore. Sono state eliminate anche delle croste nere prodotte nei
sottosquadri dall’azione combinata di pioggia e inquinanti
atmosferici. Dopo l’eliminazione dei microrganismi vegetali e il
consolidamento con resine acriliche, la pulitura è stata eseguita
con un macchinario che a bassa pressione emette una miscela di
acqua, aria e sabbia che rimuove lo sporco rispettando la patina
superficiale. Così le statue hanno ripreso vita, fondendosi con le
memorie del passato e ricongiungendo «arte, spirito e storia». |