Secondo
l’architetto Augusto Romano Burelli gli stessi “architetti non
riflettono abbastanza sul seguente paradosso:
lo spazio sacro è, per il culto cattolico, parte integrante del
rito, il rito è indissolubilmente legato alla parola rivelata che
non muta, la parola rivelata è parte sostanziale del Divino, quindi
lo spazio sacro non può cambiare secondo i capricci dell’architetto;
deve esserci qualcosa che non muta.
NE HANNO DISCUSSO:
-
Don Roberto
Tagliaferri, Professore
all’Università Cattolica di Milano e all’Ist. di S. Giustina, liturgista ed
epistemologo
-
Arch. Davide
Raffin, Docente all’Università
di Udine
-
Arch. Alessandro
Pizzolato, Docente
all’Università IUAV di Venezia
-
Arch. Augusto
Romano Burelli, Presidente del
Corso di Laurea di Architettura all’Università di Udine
-
Moderatore - Prof. Giovanni Frau,
Fondazione Abbazia di Rosazzo
Il centro del problema architettonico-liturgico è
proprio questo, cioè il "dilemma tra l’immutabilità del rito e la
vaga transitorietà dell’architettura di oggi".
Gli architetti contemporanei sono ossessionati dalla categoria del
"nuovo", eppure l’architettura che ha annientato la tradizione
difficilmente potrà contare su una nuova tradizione in cui essere
conservata e tramandata. Il tempo postula la durata come la ragion
d’essere: le opere dell’architettura sacra la ricercano più delle
altre, vincolate come sono al rispetto dei fini e delle verità
immutabili della Chiesa. Tramite la durata il tempio protesta contro
la morte, cicatrizza le ferite inferte dal dubbio, testimonia la
salvezza della vita eterna. Ma al di là dell’affermazione un po’
conservatrice che la ricerca del nuovo annulli la durata, la "breve
eternità" dell’edificio sacro è l’allegoria di un’eternità solo
apparente.
L’architettura religiosa degli ultimi trent'anni usa un linguaggio
sacralmente inespressivo, che sembra il portato di un secolarismo
senza legame alcuno con la trascendenza. Il suo aggiornamento
figurativo, concepito dagli architetti nella più grande e
solipsistica libertà di cui nessun altro edificio pubblico ha mai
goduto, è la maschera di un vuoto teorico e teologico
vertiginosamente profondo.
I COLLOQUI DELL’ABBAZIA
Fanno parte de ‘I colloqui dell’Abbazia’ una serie di incontri
fortemente voluti e ideati dalla Fondazione Abbazia di Rosazzo con
il preciso scopo di trattare argomenti di attualità e interesse
generale che abbiano ricadute specifiche nel territorio di
competenza.
Il programma si inquadra in un progetto più ampio e definito di
azioni concrete che hanno come fine la valorizzazione del territorio
e il potenziamento delle sue intrinseche peculiarità, con l’impegno
sempre maggiore rivolto alle problematiche contingenti e alla
proposizione di soluzioni innovative.
I «COLLOQUI DELL’ABBAZIA
DI ROSAZZO»
HANNO TOCCATO IL
DELICATO TEMA DELLA PROGETTAZIONE DELLE NUOVE CHIESE
(GABRIELLA
BUCCO
- LA VITA CATTOLICA SABATO 2 MAGGIO 2009)
L’ARCHITETTURA MODERNA ha smarrito la
strada del dialogo con Dio e con l’eternità? Questo la domanda
al fondo del dibattito dedicato al tema «Architettura del
sacro tra architetti muti e liturgisti ciechi», svoltosi
martedì 21 aprile a Rosazzo nell’ambito de «I colloqui
dell’Abbazia». Un argomento che è anche il titolo del libro
scritto dall’architetto Augusto Romano Burelli con Paola Sonia
Gennaro, dove si descrivono tre sue chiese: Santa Lucia in
Piovega di Gemona, Kirch Steigfeld a Potsdam e la chiesa di
San Pietro al centro di Berlino. Ha fatto gli onori di casa
mons. Remo Bigotto, rettore dell’Abbazia, che ha ricordato
come ogni anno si costruiscano in Italia circa 35 chiese e
come un concorso, bandito dalla Conferenza episcopale italiana
per nuove architetture, sia giunto ormai alla sua quarta
edizione. Proprio due degli architetti vincitori di questa
manifestazione, Alessandro Pizzolato e Davide Raffin, hanno
presentato le chiese premiate: quella di Santa Maria della
Roccella in Calabria (2003) e il progetto del Sacro Cuore di
Gesù per Reggio Emilia. Entrambi hanno collaborato con
liturgisti e artisti con tempi rapidi di realizzazione.
Il prof. Giovanni Frau ha moderato il dibattito tra i due
protagonisti dell’incontro, personalità forti e originali:
l’architetto Adalberto Burelli, presidente della facoltà di
Architettura dell’Università di Udine, e Roberto Tagliaferri
liturgista ed epistemologo, docente all’Università cattolica
di Milano e all’Istituto Santa Giustina.
I lavori sono stati aperti da Burelli che ha evidenziato
come nel mondo luterano, a differenza di quello cattolico, il
canto e la musica guidino il rito e nel presbiterio nulla sia
vincolato alle figure officianti, tanto da giustificare la sua
progettazione con arredi mobili. Secondo Burelli, nella
moderna architettura cattolica delle chiese, si è invece
distrutta la tradizione senza ricrearne una. I progettisti
occidentali, ossessionati dalla categoria del nuovo, non
organizzano più lo spazio secondo canoni liturgici, ma come
«monadi impazzite» declinano l’architettura per esprimere
concezioni personali solipsistiche che durano, forse, il tempo
di una generazione. Nelle chiese c’è dunque un uso eccessivo
del simbolo della croce, unicamente perché, afferma Burelli
,«altrimenti la gente non capirebbe che quell’edificio, che
potrebbe essere qualunque altra cosa, è una chiesa».
«L’architetto ha bisogno di vincoli», ha tuonato Burelli,
osservando che nell’architettura sacra operano «architetti
muti, poiché non riescono ad esprimere il significato di ogni
elemento spaziale, e liturgisti ciechi dal punto di vista
della percezione spaziale», laddove invece architetto e
liturgista si dovrebbero confrontare. L’architettura sacra
deve contenere e manifestare il «genius loci» radicato nel
culto. Non a caso infatti molti edifici religiosi occupano
luoghi di precedenti religioni e non c’è nulla di più
emozionante che entrare in chiese che hanno ospitato altri
riti, come ad esempio i templi greci di Atene e Siracusa.
Tagliaferri ha affermato che il Concilio Vaticano II non
ha fornito regole precise per definire l’architettura sacra.
Le chiese hanno perso la memoria di essere spazi in cui si
produce sacralità e si esce trasformati per diventare spesso
ambiti in cui si evidenziano ideologie e si forniscono
significati didascalici. L’architettura deve invece essere
legata alla liturgia, che a sua volta esprime il rito, cioè il
seguire, non modificabile, delle regole canoniche. Il rito si
basa infatti sulla ripetizione, basti pensare al ritmo
africano del tamburo, che fa apparire presenze e modifica i
dati percettivi per far sperimentare l’Altro, un essere molto
più grande di quello umano, riproducendo attraverso
l’esperienza iniziatica una esperienza religiosa. Il rito
attinge infatti al linguaggio percettivo, che precede, come si
nota nei bambini, il linguaggio razionale, che è invece
divenuto prevalente. Alle chiese moderne manca spesso la
capacità di attingere a uno spazio percettivo, come alla
liturgia manca quella di attivare l’emozione. Gli spazi sono
funzionali, dominati dall’angolo retto, mai emozionali come
quelli del tempio greco, delle caverne o delle chiese
romaniche o come quelli realizzati da Le Corbusier nella
cappella di Rochamp.
Il rito permette di attingere all’evento in modalità
percettiva e non ideologica, per cui il fedele entra nella
chiesa per attingere alla presenza del Dio. Per Tagliaferri
costruire una chiesa significa «svuotare e riempire uno spazio
con dei canoni, delle regole interpretate con tipologie
diverse». Fondamentale è evidenziare il cammino liturgico e la
chiesa si può interpretare come soglia che fa da diaframma tra
lo spazio mondano e quello divino. Secondo Tagliaferri, il
rito «è un disciplinato ripasso di atteggiamenti giudicati
giusti e produce una pubblica accettazione. Il rito non
afferma verità o falsità, ma ha una funzionale pragmatica,
produce accettazione pubblica e si pone al di fuori delle
convinzioni personali». Compito, non facile, dell’architettura
sacra è saperlo interpretare. |
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