Nella chiesa di S.Maria ad Nives, a Osoppo, domenica 1
luglio 2012, festa di Santa Colomba, don Dino ricorda
insieme alla comunità dove è stato battezzato e ordinato
sacerdote i suoi 50 anni di prete.
PRETE A OSOPPO
Il 18
marzo scorso, a 50 anni esatti dalla mia ordinazione
sacerdotale, ricordavo a Montenars, con la mia gente, le
tappe di un cammino non ancora concluso. E un paio di giorni
fa, nella festa di S.Pietro, insieme a tanti vecchi amici
ricordavo, nella chiesa dell’Abbazia, i 12 anni trascorsi da
prete a Rosazzo. Oggi, nella chiesa dove sono stato
battezzato proprio in uno di questi giorni di 74 anni fa e
ordinato prete 50 anni or sono, il 18 marzo del 1962,
ripenso ai miei anni di bambino. E cerco di capire le vere
ragioni per cui mi sono fatto prete. Tento di farlo a voce
alta insieme a voi, cari compaesani, e in compagnia della
nostra santa, la misteriosa sorella Colomba che accompagna
la sua comunità di Osoppo nelle vicende, anche dolorose,
della nostra storia più che millenaria.
La
prima volta – se ben ricordo – che manifestai l’intenzione
di farmi prete fu nella stalla di Rabinetti (via Cerere).
C’erano Renso Pellegrini e mio cugino Dino di Blâs. Non mi
hanno preso sul serio, anche perché avevo 5 anni e non
sapevo nemmeno io che cosa significasse farsi preti.
Nessuna ispirazione divina, nessuna vocazione, nessun
misterioso disegno. Più semplicemente, forse, il desiderio
infantile di rispecchiarmi in qualcuno che ammiravo e di
trovare in lui il padre che avevo perso a 2 anni. Era don
Guerrino Di Fant, il cappellano che amava la musica e i
bambini.
In
quegli anni già servivo alla Messa in chiesa, pure nella
buia grotta-rifugio del Forte, sotto i bombardamenti.
Talvolta partecipavo anche alla Messa del pope dei cosacchi.
Ho negli occhi quei volti scuri, le candele di sego
infilzate sulle baionette dei lunghi fucili, e nelle
orecchie quei cori armoniosi di una liturgia strana che
risentirò con commozione tanti decenni più tardi nella
cattedrale bulgara di Alexander Njewski a Sofia.
E
facevo proprio io da chierichetto, portando il boccìn
dell’acqua santa, quando con tutta Osoppo in piazza Dante
aspettavo il camion che avrebbe riportato alle loro
famiglie, in un paese del Veneto, le salme dei due cugini
Teso (Gino e Amelio), soldati italiani giustiziati al Forte
perché disertori nel giugno del ’44. Avevo 6 anni, ma i miei
ricordi sono vivi. L’arciprete Frappa parlava dei due
giovani che prima di morire si erano confessati e
comunicati, e lo avevano abbracciato. Ma lo ricordo anche
quando, durante la Messa della domenica, si era indignato e
con la sua voce potente aveva tuonato dal pulpito contro
quelle mani ignote (ma non tanto!) che avevano tracciato
con vernice rossa sulle croci delle loro tombe, in cimitero,
la scritta: vendicheremo.
Vedo
preti in azione, e mi sto innamorando di loro. L’arciprete
Frappa, autorità indiscussa, trattava con tedeschi e
fascisti, cosacchi e partigiani, sempre a fianco della
gente. E’ lui che guida l’interminabile processione delle
bare dello spezzonamento (22 novembre del ’44), e che un
mese dopo accompagna al cimitero il confratello maestro don
Valentino Pellegrini (la sua stola trafitta dalle schegge
mentre stava confessando i moribondi dello spezzonamento,
sulle Paluzze, l’ho bene in mente). E ricordo pure quel
prete giovanissimo e affascinante, don Napoleone De
Franceschi, che qualche mese prima aveva celebrato in questa
chiesa la sua prima Messa.
Cinque
anni fa, gli anestesisti che mi preparavano ad una complessa
operazione al cuore, mi rassicuravano: l’operazione sarà
lunga, un po’ complessa, ma senza dolori. Solo qualche
difficoltà al risveglio. Poi ho capito. Le difficoltà
verranno dalle memorie emergenti dal pozzo dell’inconscio:
non quelle del terremoto di 30 anni prima, ma proprie
queste, comprese nell’arco di sei mesi: dal novembre del
1944 al maggio del 1945. Memorie dimenticate, eppure ancora
vive. E determinanti.
Ebbene, penso davvero che la mia voglia di farmi prete sia
nata in quei 6 mesi drammatici, e poi consolidata nei primi
anni del dopoguerra, quando tutto il paese viveva in piazza
e spesso anche sulle barricate. Penso alle elezioni del 18
aprile 1948 (portavo il settimanale “Vita Cattolica” nelle
case), ai comizi in piazza Napoleone (mia mamma andava in
canonica a far colla per i manifesti della propaganda dei
Comitati Civici), alle famiglie che emigravano in massa in
Argentina e in Sud Africa. Ed ero presente anch’io – era il
1949 – a quelle funzioni di commiato in chiesa dove
l’arciprete consegnava il Vangelo e il Rosario alle famiglie
che salivano piangendo sui carri alla volta della stazione
di Gemona, e poi sui piroscafi a Genova, Trieste, Venezia.
Mi
sono lasciato affascinare da questi preti che, magari senza
tanti distinguo, agivano da veri leader, non temevano i
potenti, amavano la gente, camminavano da pastori alla testa
del gregge. Uomini di fede che in tempo di guerra si erano
proposti come ostaggi per liberare i nostri padri di
famiglia imprigionati in via Spalato, e in tempo di pace
intervenivano, forse fin troppo, quando credevano fossero in
gioco i valori della dignità, della libertà, della fede del
nostro popolo.
Se
nell’ottobre del ’49 sono entrato in seminario lo devo
sicuramente anche a queste figure. E pur tuttavia, se poi mi
sono fatto prete, non lo devo tanto a loro e nemmeno ai
tanti altri preti che ho incontrato nei 13 anni della mia
preparazione. Ma a una donna: povera e semplice. Mia mamma
Delma non mi ha incoraggiato su quella strada. Anzi, fin
negli ultimi anni di Roma e Germania, mi raccomandava di
pensarci bene, per non far brutte figure. “La nostra
famiglia è di buoni cristiani, ma non di preti”. Ma io
sapevo che lei era d’accordo.
Spesso
ho immaginato quali valori abbinano davvero ispirato la mia
scelta di fare il prete (a 22-23 anni). E penso di dover
convenire che le idee di fondo che mi hanno trascinato verso
questo stato di vita, e poi aiutato a tenere la barra
dritta in mezzo alle tante tempeste che ho dovuto
attraversare, le ho succhiate con il latte di mia mamma. Non
vorrei qui tessere gli elogi di una donna che voi tutti
avete conosciuto. Ricordo soltanto un episodio, sempre di
quel lontano 22 novembre del ’44. Erano le prime ore del
mattino. Prima elementare con la maestra Giustina Marchetti,
nella sua casa proprio di fronte alla casa in cui
attualmente abito. Suona il preallarme, e subito dopo
l’allarme. Tutti verso il rifugio, in grotta. Un centinaio
di metri, ma in strada già tanti morti, feriti, anche il
compagno (di 4.a, forse di 5.a) Armando Valerio, che mi
guarda straziato dalle ferite pochi metri distante dal
paraschegge. Nella grotta è buio. Tutti si chiamano. Trovo
mia sorella Anita. Manca la nostra mamma, che finalmente
arriva. Ci rassicura, ci bacia e abbraccia, ci raccomanda di
tenersi vicini. E poi ci lascia soli, perché tanti feriti
invocano acqua.
Il
valore della solidarietà, l’andar oltre ai propri interessi,
a fare gli affari degli altri, a fidarsi di un Dio che
cammina sempre accanto, a rimanere poveri e liberi di
spendersi. Queste idee-forza non le ho apprese sui libri ma
da mia madre. La sua era fede, se volete, anche ingenua, ma
salda come una roccia. Una volta mi aveva portato in
braccio, da piccolo, ancora addormentato, per la recita
delle 1000 Avemarie (pensate: 20 rosari, dalle 4 del mattino
fino alla prima messa delle 6). La organizzava ogni anno,
non so per quale occasione, Anuta Beatisanti. Un modo di
pregare, certo, discutibile. Ma la fede di questa donna che
a 30 anni perde il marito e rimane con due figli di 8
(Anita) e 2 anni (Dino), in piena guerra, povera, spesso
senza lavoro, mi ha insegnato che la via che val la pena di
vivere è proprio quella. Da poveri ma senza paure.
Ho
già parlato a Montenars ed a Rosazzo dei miei anni di prete.
Vi ricorderò soltanto che io mi sono “innamorato” (sì,
perché farsi prete è come sposarsi) a 22-23 anni, dopo non
pochi dubbi e pene. Erano gli anni in cui stava cambiando il
mondo e con esso anche la chiesa. Quell’ottobre del ‘58
c’ero anch’io (arrivato a Roma per gli studi teologici) in
piazza S.Pietro ad aspettare che si affacciasse il nuovo
papa (Giovanni XXIII). E poi a sperare nella svolta. La
quale arrivò (nel Natale del ‘61) con l’annuncio del
Concilio Ecumenico: tutti i vescovi a Roma per lasciarsi
interrogare dal mondo che cambia. Nell’anno successivo, in
questa stessa chiesa, accolto da tutto il paese in festa, il
vescovo Zaffonato mi ordinerà sacerdote. Nella festa di
S.Giuseppe del ’62 inizia dunque quel cammino che ancora
continua. Fin dove, non si sa. Certo è che 50 anni sono una
bella tappa. E sono a festeggiarla con voi, nella chiesa
dove sono diventato cristiano e pure prete. E quel giorno ho
dato la prima Comunione a mia sorella Mariangela (aveva 6
anni) |