A Montenars,
domenica 18 marzo 2012,
don Dino ricorda insieme alla comunità i suoi 50 anni di
prete.
PRETE PERCHE’
Non mi riesce proprio facile, cari amici, ricordare insieme
a voi questi 50 anni di vita vissuta in luoghi e impegni
tanto diversi (Osoppo e Roma, Germania e Svizzera, Milano,
Rosazzo, ora Montenars), e in atmosfere ecclesiali così
differenti (prima del Concilio, nel travaglio del dopo
Concilio, in una chiesa prima coraggiosa, poi incerta e
timorosa nei tempi nuovi che avanzano). Mi è difficile in
particolare spiegarvi perché e come mi sono fatto e rifatto
prete. Per facilitarmi il compito prendo a prestito – dai
profeti dell’Antico Testamento – un’immagine che tutti
conosciamo: l’amore fra due persone, che per la Sacra
Scrittura è l’amore di Dio per il suo popolo, e per me, qui,
è il mio amore per la chiesa. Così, quando sentite “chiesa”,
pensate a “donna”, e in chi vi parla un prete non celibe ma
“ammogliato”, seppur con una Donna un po’ particolare.
Mi sono “innamorato”
dunque a 22-23 anni, dopo non pochi dubbi e pene. Erano gli
anni in cui stava cambiando il mondo e con esso anche la
chiesa. Quell’ottobre del ‘58 c’ero anch’io, arrivato a Roma
per gli studi teologici, in piazza S.Pietro ad aspettare che
si affacciasse il nuovo papa (Giovanni XXIII). E poi a
sperare nella svolta. La quale arrivò (nel Natale del ‘61)
con l’annuncio del Concilio Ecumenico: tutti i vescovi
dell’orbe a Roma per lasciarsi interrogare dal mondo che
cambia e cercare insieme le risposte del Vangelo.
Nella mia formazione
teologica all’università Gregoriana, con docenti impegnati
nei lavori conciliari, io scelsi l’indirizzo ecumenico,
specificamente protestante luterano. E questa passione mi
accompagnerà per tutta la vita: nel lavoro professionale (di
traduttore di testi), nelle frequentazioni ecumeniche (i
miei più cari amici sono teologi luterani, calvinisti,
valdesi e cristiani ortodossi), negli studi (dopo i primi
cinque anni di teologia a Roma, continuerò gli studi di
specializzazione in una università protestante luterana in
Germania).
Se il mio viaggio di
nozze lo feci a Camaldoli (20-26 marzo), ospite dei frati di
quel monastero, la luna di miele la trascorsi in Germania.
Anni belli e un po’ avventurosi, dove ho imparato
l’indipendenza economica e la libertà intellettuale, ad
affrontare i rischi e ad apprezzare le complessità (anche
della mia “donna” che avevo a fianco).
Nell’autunno del ‘66, al
mio primo impegno ufficiale in Diocesi, arriva la doccia
gelata. Tre parroci (Latisana, S.Daniele, Udine) nell’arco
di tre giorni mi fanno subito capire che tra la chiesa
ideale e quella reale la differenza è grande. Di me, “sposo
novello”, non c’è bisogno. Uno dei tre parroci, uomo
stimato, mi congeda con queste parole: “Qui non abbiamo
bisogno di preti protestanti” (in verità, in quegli anni di
vacche grasse, non si sentiva nemmeno la mancanza di preti).
Nel seminario di Gorizia
invece avevano bisogno, ma più che di preti, di un docente
di teologia e in quello di Udine di un insegnante di storia
della filosofia. Belli quei quattro anni trascorsi con
giovani di cui condividevo, le aspettative e al cui fianco
vivrò i tormenti della nuova generazione. Anche in Friuli
stava arrivando il 68.
A Milano sbarcai
nell’autunno del ’70, e per mia scelta. Ritenevo, non a
torto, che quella città sarebbe diventata l’epicentro di
grandi sommovimenti, dove avrei potuto vivere da
protagonista. Arrivai giusto in tempo per partecipare alle
marce contro la guerra nel Viet Nam, respirare il clima
studentesco della Statale, impegnarmi con i profughi cileni
del golpe di Pinochet, confrontarmi con i Cristiani per il
Socialismo, partecipare ai dibattiti del Referendum sul
divorzio. Sei anni e mezzo vissuti con amici dalle stesse
passioni e dall’identica fede. Qui il mio “matrimonio” ora
si allarga ad una famiglia vera, autentica, impegnata nella
solidarietà radicale, povera e quindi libera, un po’
utopista e quindi evangelica. Direi: un secondo viaggio di
nozze, non di sei giorni come a Camaldoli ma di sei-sette
anni trascorsi in quel monastero a cielo aperto che è stato
il gruppo dei tanti amici di Milano, riuniti permanentemente
in via Lippi con ospiti del grande mondo politico
internazionale ed ecclesiale.
Il fine corsa arriverà
improvviso il 6 maggio del ’76, la notte del terremoto del
Friuli, e proprio dov’era iniziato il viaggio, nel mio paese
di Osoppo, tra morti e macerie, disperazione e speranze. Ho
sempre pensato che, gira e rigira, dovevo arrivare proprio
qui, giusto in tempo, per venir sottoposto alla prova di
Giobbe.
Due anni prima avevo
tradotto con grande trasporto “Il Dio crocifisso” di Jürgen
Moltmann, dove il grande teologo, partendo dalla sua
esperienza di internato in un campo di prigionia, di giovane
sconfitto su tutti i fronti, si inoltra nel mistero del
male e della presenza-assenza di Dio nei drammi dell’uomo.
Evidentemente non poteva bastarmi un libro a risolvere il
problema (insolubile) della presenza del male, a
giustificare un Padre che pare insensibile alle sofferenza
dei suoi figli, a vedere Dio accanto ai corpi martoriati dei
due fratellini morti abbracciati. Ma sarà proprio questa
“prova di Giobbe” ad aiutarmi ad intravedere i lineamenti
del Padre sul volto del Crocifisso che lo invoca tra le
lacrime dalle tenebre del Golgotha.
Questo Dio dal volto
umano mi ha aiutato, poco a poco, a riscoprire anche tratti
più umani nella mia “donna”. Che ora incomincio a vederla
incarnata nella mia gente accampata sotto le tende, nelle
baracche, impegnata nella faticosa attraversata del deserto
della ricostruzione. E poi, nel novembre del ’78, in una
comunità piccola, povera e dispersa, Peonis, che nella festa
della Madonna della Salute porta in processione, sulle
spalle di tutte donne, la statua della sua patrona e
confidente tra le macerie del paese. E divento il suo
parroco (la mia prima nomina ufficiale in terra udinese).
La mia “donna” ora
diventa Peonis, cui si aggiungeranno qualche anno più tardi
anche le sorelle Trasaghis e Braulins. Qui mi insegnano a
fare il prete. E qui inizia la grande avventura delle
Scuole di Teologia per i Laici. Dieci anni di passioni, con
una decina di scuole sparse lungo tutto il Friuli dai monti
al mare, tra gente che non solo vuol rialzarsi dalle macerie
del terremoto ma si apre con coraggio ad un futuro che si
profila sempre più povero di preti, in una chiesa piramidale
che priva di preti si affloscia su se stessa ma che il
Concilio la vuole chiesa di popolo. Dieci anni di primavera,
sempre temendo i grigiori dell’autunno e le gelate
dell’inverno.
Dopo l’intermezzo di
Villalta, comunità aperta che respira a pieni polmoni lo
spirito conciliare, inizia l’esperienza dei dodici anni
nell’abbazia di Rosazzo, con la piccola comunità di Oleis e
la grande Europa dei popoli. Troppo lunga per essere vista
come un “viaggio di nozze” e che pure mi sta disvelando
dimensioni insospettate nella mia “donna”. Qui trovo tanta
umanità, amici veri e credenti autentici, persone che fanno
del volontariato uno stile di vita, gente determinata che
testimonia, con scelte coraggiose e inedite, gli ideali del
Vangelo, credenti di confessioni diverse (ancora una volta i
luterani di Trieste, gli evangelici di Berlino, gli
ortodossi della Bulgaria) quali compagni di viaggio sulle
vie della nuova Europa. E tanta voglia di perdersi perché
altri guadagnino.
E poi, come sempre, la
nuova gelata, improvvisa. Questa volta investe il mio
corpo. Sulla soglia della settantina, anche lui ha qualcosa
da rivendicare. Ictus, emorragie, ernie, scompensi cardiaci.
E finalmente un intervento radicale al cuore che mi fa
concludere: è venuto il tempo di fermarmi là dove ho
incominciato il viaggio, e riposare, direi appagato, a
fianco della mia “compagna”.
Ma di nuovo questa
“donna”, inseparabile e imprevedibile, si ripresenta in
nuove fattezze, quelle di una comunità, anch’essa piccola e
aperta ai nuovi tempi: Montenars, paese di 600 anime ad una
quindicina di km dal mio paese di nascita, su in montagna.
E’ da due anni che stiamo camminiamo insieme, mano nella
mano, come due innamorati. Che non sia, ancora una volta, un
viaggio di nozze? Ci risentiremo fra una decina d’anni, al
60° anniversario di matrimonio. Speriamo soltanto di
rimanere giovani, e innamorati come cinquant’anni fa.
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