Testi tratti dal volume:
La Chiesa
Santa Maria della Misericordia nell'Ospedale Civile di Udine
Introduzione
La Comunità cristiana dell’Ospedale e i sacerdoti che in
esso svolgono il loro ministero, intendono ricordare i
protagonisti che hanno edificato il tempio centrale del
nosocomio udinese: la chiesa “Santa Maria della
Misericordia”. È debito di riconoscenza umana e cristiana
fare memoria di coloro che ci hanno preceduto.
«Facciamo
l’elogio degli uomini illustri, dei nostri antenati… il
Signore ha profuso in essi la gloria»
(Siracide 44, 1-2). Uomini e donne resi
illustri dalla dedizione fedele a questo Ospedale, che nel
dopoguerra hanno impegnato talenti di umanità e saggezza, di
professionalità, di scienza.
Correvano gli anni della ricostruzione, e l’Ospedale Civile
aveva raggiunto traguardi notevoli e livelli elevati di
ricerca e di cura. Nuovi spazi, nuovi edifici, nuova era la
mentalità di gestione dei padiglioni ospedalieri. Agli inizi
degli anni Cinquanta, nacque l’idea di dare un nuovo spazio
anche al culto cattolico. Anche la fede necessitava di
essere riconosciuta come “centrale” nella cura dell’uomo.
Fu così che si sviluppò
lentamente l’idea di edificare una chiesa nel cuore del
nuovo nosocomio, dedicata alla patrona e titolare, Santa
Maria.
La contemplazione dei
misteri della vita della Madre di Misericordia e di quelli
di Cristo, Suo figlio, raffigurati nelle vetrate istoriate
è, per noi, fonte di luce di pace. Le sacre vetrate,
illuminate dalla luce esterna, lasciano trasparire nelle
tenebre, un raggio di splendore e di verità per l’uomo
affaticato e oppresso dal dolore, che sosta in preghiera nel
tempio. Quella stessa luce colpisce, leggiadra e soffusa, i
mosaici absidali, perché l’affaticato pellegrino della
sofferenza umana possa contemplare il cielo e le sue
meraviglie, gli angeli, i santi, la Trinità. È la stessa
luce, penetrante e mesta, a descrivere i bronzi che
raffigurano l’umana sofferenza del Cristo sulla via del
calvario, e confortano chi è schiacciato dalla croce del
dolore. Di luce, di respiro, di contemplazione ha ancora
necessità l’uomo contemporaneo che lavora, lotta, spera.
Questa fu l’intuizione di chi ci ha preceduto, che fedeli
servitori e amministratori della medicina e delle sue
esigenze moderne, servirono dapprima la persona malata, il
suo corpo e il suo spirito. Il pensiero corre al parroco di
allora, il grande don Olivo Bernardis, al Presidente
dell’Ospedale Dott. Alfredo Berzanti, agli amministratori
Cav. Arnaldo Armani, Dott. Ezio Terenzani, Dott. Giovanni
Guarnotta, Prof. Olinto Fabris, e all’infaticabile economo
Dott. Alfeo Macutan. Ma con altrettanto e generoso sguardo
di memoria, il pensiero va ai molti altri ai quali è
dedicata questa pubblicazione: le intelligenti e
infaticabili generazioni di medici, infermieri, operai,
tecnici e impiegati; i sacerdoti e le schiere di Ancelle
della Carità. Persone che hanno reso grande nel mondo il
nome di un ospedale con la passione per la medicina e il
grande rispetto per i malati «i nostri unici padroni», come
amava ripetere San Camillo de’ Lellis.
Ora, l’edificio sacro
appare a noi nelle sue svettanti linee, così come lo
idearono i protagonisti di allora, l’architetto Giacomo
Della Mea, con la collaborazione di tanti suoi amici
artisti: Ernesto Mitri, Max Piccini, Fred Pittino e di
altri, Luciano Bartoli, e Ugo De Casilister, oltre che dalle
maestranze dell’Impresa Feruglio. Essi hanno realizzato un
edificio sacro - la chiesa di muratura - , perché contenesse
una Chiesa di popolo - l’edificio spirituale-.
Tale attività artistica è fra
le più nobili dell’ingegno umano. L’arte religiosa e al suo
vertice, l’arte sacra, infatti, hanno per loro natura, una
relazione con l’infinita bellezza divina, che viene espressa
dalle opere dell’uomo, ed è orientata a Dio e all’incremento
della Sua lode e della Sua gloria. Con le loro opere d’arti
hanno contribuito ad elevare religiosamente le menti di
generazioni di malati e di operatori sanitari.
Ma cos’è una chiesa? È la
“tenda” che Dio ha piantato in mezzo a noi perché fosse una
casa di preghiera, in cui il Suo popolo potesse celebrare
l’Eucaristia e la conservasse. Qui i cristiani che lavorano
e soffrono, si riuniscono; qui, la presenza del Figlio di
Dio è offerto sull’altare del sacrificio, e diviene cibo,
sostegno e consolazione dei fedeli. In questa “tenda” nel
deserto della sofferenza, i pastori e i fedeli sono invitati
a rispondere alla chiamata di Colui che di continuo infonde
la vita divina e l’amore nelle membra del suo corpo.La
chiesa è il luogo sacro, che raccoglie un popolo vivo; è un
segno e un invito alla preghiera, un grembo che protegge e
fa rinascere l’uomo. Il protagonista principale di questo
luogo santo è lui, il Cristo, luce delle genti che illumina
ogni creatura (cfr Marco 16,15). Perciò la chiesa, edificio
bello e luminoso è segno di una Chiesa-popolo in cammino.
Questo è il compito assunto dai discepoli di Gesù:
illuminare tutti gli uomini incontrati nel tunnel del dolore
umano, con la luce del Cristo, che risplende sul volto della
Chiesa. Essa è, in Cristo, il sacramento, ossia il segno e
lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di
tutto il genere umano. Tutti infatti, operatori ospedalieri
e malati, costituiscono l’edificio santo, il corpo vivo e
splendente di Cristo che è la Chiesa. Egli la rende
splendente con il fuoco e la luce del Suo Spirito d’amore,
l’eterna giovinezza di Dio.
Così, la Chiesa-popolo
radunata nella chiesa-edificio, fa memoria del sangue e
dell’acqua, che uscirono dal costato aperto del Crocifisso (cfr
Giovanni 19,34). Quanti corrono a questa fonte di grazia,
così come preannunciato da Gesù stesso: «quando sarò levato
in alto da terra, tutti attirerò a me » (cfr Giovanni
12,32). Ogni giorno il sacrificio della croce, col quale
Cristo, nostro agnello pasquale è stato immolato (cfr 1
Corinti 5,7), viene celebrato sull’altare: in tal modo, si
rinnova la nostra speranza e la nostra redenzione. Tutti,
malati e operatori, rispondendo a questo invito di Cristo,
irradiano la luce della speranza e dell’amore in questo
luogo di sofferenza.
Mentre, ringraziamo Dio
per questa perla artistica collocata nel cuore di questo
Ospedale, invochiamo il Suo aiuto perché nessuna delle
motivazioni e delle fatiche passate vadano perdute.
Sull’esempio di
generazioni di professionisti che ci hanno preceduto, «anche
noi, -odierni operatori ospedalieri - circondati da un gran
nugolo di testimoni, corriamo con perseveranza nella corsa
che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore
e perfezionatore della fede» (Ebrei 12, 1-2), per fare oggi
la nostra parte di bene.
Marzo 2003 - Don Dino
Bressan
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La
Chiesa dell’Ospedale di Udine: un Esempio di Collaborazione
tra Artisti
La chiesa dell’Ospedale di Udine, progettata
dall’architetto Giacomo Della Mea, è uno scrigno prezioso di
opere d’arte realizzate da Luciano Batoli, Ernesto Mitri,
Max e Giulio Piccini, Fred Pittino. Mosaici, sculture,
vetrate si compenetrano strettamente con l’architettura e
sono state concepite in maniera unitaria coordinandosi
strettamente tra loro a formare un insieme di qualità
elevata e altamente rappresentativo dell’arte degli anni
Cinquanta. L’insieme si è conservato senza gravi alterazioni
fino ai nostri giorni fornendo un interessante esempio di
arte sacra concepito in modo unitario sotto l’abile regia
dell’architetto Giacomo Della Mea. Infatti generalmente
nelle chiese si nota un sovrapporsi di opere d’arte databili
a diversi periodi, mentre nella chiesa dell’Ospedale di
Udine architettura e arredi sacri furono concepiti in pochi
anni da artisti non solo amici tra loro, ma che
rappresentavano il meglio dell’arte friulana del periodo,
come orgogliosamente ricorda ancora lo scultore Giulio
Piccini.
Come ben sottolinea Giuseppe Fornasir, prima che architetto
Giacomo Della Mea fu pittore dal 1926 al 1958, anno
dell’ultima esposizione “ Cinquant’anni di pittura e
Scultura nella carnia e nel Canal del Ferro”, in cui egli
fece parte del comitato organizzatore con Max Piccini e Fred
Pittino. L’alpinismo e la pittura furono le sue due grandi
passioni condivise con il pittore Ernesto Mitri. Come gli
architetti Marcello D’Olivo, Cesare Pascoletti, Firmino Toso
e Gino Valle, gli esordi di Giacomo della Mea furono dunque
in qualità di pittore, già nella Prima Biennale Friulana
d’Arte del 1926 dove potè confrontarsi con i migliori
artisti friulani. Nel 1928 Giacomo Della Mea presentò un
paesaggio montano Contrada Pisimit anche nella Seconda
Biennale Friulana d’Arte, insieme allo scultore Max Piccini,
che faceva parte della Giuria, a Fred Pittino che espose le
sue migliori opere in stile novecento e a Ottorino Aloisio
con i suoi progetti per l’Università dello Sport, che tanto
lo dovettero impressionare.
Verosimilmente iniziano in quel periodo i rapporti
con gli artisti che egli chiamò per decorare la chiesa
dell’Ospedale: particolarmente numerosi sono i dipinti di
paesaggi montani esposti da Della Mea nella mostra gemonese
del 1931, che lo vede affiancato a Pittino. Nello stesso
anno 1931 Giacomo Della Mea è presente con l’olio Paesaggio
in Val Fella anche nella Quinta Sindacale d’arte d’Arte dove
esposero Ernesto Mitri , Max Piccini, che dipinse uno dei
suoi migliori quadri novecentisti, Le Amiche. La Sindacale
del 1937 rinforzò i legami di amicizia e di lavoro tra
Ernesto Mitri, Max Piccini, Fred Pittino e Giacomo Della
Mea, che presentò “solide pitture” novecentiste di cui
Arturo Manzano rileva “il sorprendente progresso”. Nel
1938, assenti per motivi di lavoro e di studio Mitri e
Pittino, Della Mea si confrontò con Max Piccini.
Nel 1939 Giacomo Della Mea si iscrisse alla
facoltà di Architettura di Venezia e nel 1940 lo scoppio
della seconda guerra mondiale scompaginò la vita degli
artisti. Nonostante le difficoltà, i rapporti di amicizia e
di collaborazione tra gli artisti, continuano come
testimonia una preziosa serie di disegni inediti eseguiti
durante la guerra nella Osteria del Vecchio Montenegrino in
via Sarpi, dove artisti, critici e giornalisti si riunivano
scambiandosi l’un con l’altro i ritratti e gli schizzi.
Grazie alla cortesia di Noemi Mitri, intelligente e
sensibile custode delle memorie paterne, me ne sono servita
per illustrare questa pubblicazione a conferma della
amicizia tra Giacomo Della Mea, Ernesto Mitri, Max Piccini e
Fred Pittino, che si concretizzò proprio nella decorazione
della chiesa dell’ospedale, dove l’architetto chiamò tutti
coloro con i quali aveva collaborato. L’unitarietà tra
architettura e decorazione quindi si spiega al di là dei
meriti stilistici proprio con la loro lunga consuetudine di
vita e di amicizia. |