RICORDO DEI SACERDOTI SLOVENI
CHE DIFESERO LINGUA E CULTURA DEL LORO POPOLO
Oggi, a distanza di alcune decenni,
si possono leggere quegli avvenimenti con maggiore distacco ed
obiettività, una condizione indispensabile perché essi possano
diventare parte integrante della storia della Chiesa Udinese e del
Friuli intero.
Anche se queste vicende interessano
una parte ristretta della comunità ecclesiale e della società del
Friuli, non di meno sono indice, come la punta di in iceberg,
della messa in atto su vasta scala di una politica che mirava a
cancellare le minoranze linguistiche venute a far parte del Regno
d’Italia dopo il 1866 e alla fine della Prima guerra mondiale. Le
maggiori manifestazioni di intolleranza si ebbero proprio nella
Slavia friulana e nelle regioni abitate da popolazioni slovene e
croate del Litorale e dell’Istria.
Si tratta di una storia fatta di
luci e di ombre, di eroismi e di paure, di scelte coraggiose, di
opportunismi e di compromessi giustificati con il male minore e
con interessi superiori. È un segmento della nostra storia che va
letto con lucidità ed equilibrio e ciò può essere fatto grazie
alle testimonianze, ai documenti e alle pubblicazioni che oggi
offrono gli elementi necessari per discernere i fatti e le
circostanze che portarono le persone ad agire in quel modo e ad
operare quelle scelte. È questo un passaggio necessario per
arrivare alla riconciliazione con il passato, alla condivisione di
una storia comune e alla purificazione della memoria. E poiché la
storia non è solo accademia e ricerca fine a se stessa, il
sacrificio, la testimonianza e l’insegnamento di questi sacerdoti
può diventare motivo di proposta operativa nella Chiesa e nella
società, di riflessione storica e teologica, in quanto le loro
scelte da una parte hanno anticipato il dibattito conciliare
sull’uso delle lingue moderne nella liturgia e sul rispetto delle
minoranze, dall’altra si sono rifatte ad una secolare tradizione
della Chiesa aquileiese di accoglienza e di rispetto delle lingue
e delle culture. Non c’è Aquileia senza la ricchezza delle lingue,
ma si può affermare pure che le lingue in quest’area geografica
non si sarebbero conservate e sviluppate senza Aquileia.
«Ex hominibus assumptus, pro
hominibus constituitur in iis, quae sunt ad Deum» (Hebr 5, 1) – è
scelto dagli uomini ed è stabilito per servire a Dio a vantaggio
degli uomini –. Può apparire banale citare in questa circostanza
il versetto della Lettera agli Ebrei, ma nel caso dei sacerdoti
sloveni della Bencia esso si rivela nella sua profondità e nella
sua concretezza. Scelti tra gli uomini di queste valli e di queste
montagne, presi da povere famiglie contadine, con i calli alle
mani, abituati fin da piccoli ad usare gli attrezzi agricoli, a
portare sulle spalle legna, fieno, letame, frutta, castagne, a
badare alle bestie in stalla, ad essere solidali con gli altri, a
scandire la giornata al suono della campana e a chiuderla con il
rosario e i canti sacri sloveni; questi uomini presi dai loro
paesi, da queste realtà che già allora soffrivano di marginalità e
di una politica che nel migliore dei casi le ignorava, questi
uomini sono diventati le guide spirituali del loro popolo «per
servire a Dio a vantaggio degli uomini» in un cruciale periodo
storico, quando tutto era predisposto per dare il colpo di grazia
all’identità linguistica di questa comunità, già minacciata da
quasi settant’anni di pressioni nazionalistiche.
Guide spirituali, sacerdoti
zelanti, ligi alle direttive pastorali, teologicamente preparati
con la serietà che caratterizzava il seminario udinese,
filosoficamente formati alla scuola del conterraneo Ivan Trinko,
rigoroso tomista, con il quale avevano uno speciale rapporto già
dagli anni del seminario; sacerdoti quindi, ma anche gli unici
«intellettuali», depositari della cultura del loro popolo, maestri
della e nella loro lingua; guida e sicuro punto di riferimento
durante le guerre, nei passaggi critici di queste terre che hanno
conosciuto profondi cambiamenti e spostamenti di confini.
Oltre alla fede, allo zelo, alla
dedizione a Dio e alla Chiesa, ciò che accomuna queste generazioni
di sacerdoti è il loro amore per la lingua slovena, per le
tradizioni religiose, per la cultura di questa terra. Questo profondo attaccamento è nato
e si è approfondito nelle prove, nelle persecuzioni, negli
attacchi subiti, nelle calunnie sopportate e nel conseguente
isolamento. Ma si è radicato soprattutto nel rapporto quotidiano
con la propria gente, un rapporto immediato che, grazie alla
lingua imparata sulle ginocchia della madre, diventava più vero,
profondo e fecondo. Con quel «linguaggio barbaro», come veniva
definito il dialetto sloveno da certa stampa, essi annunciavano il
Vangelo, confessavano, insegnavano il catechismo, consolavano la
gente nei momenti tristi o gioivano con essa nei momenti di festa.
Una inculturazione della fede, si direbbe oggi, che trae origine e
si alimenta attingendo ai misteri dell’Incarnazione e delle
Pentecoste.
È stata lunga questa Via Crucis
della lingua slovena e dei sacerdoti della Slavia che si è
sviluppata in stazioni dolorose dove gli accusatori e gli aguzzini
cambiavano nome, ma non i metodi e la finalità della loro azione
che era quella di togliere l’anima, la cultura, la lingua di
questo popolo che rappresentava un’anomalia nell’orizzonte
piattamente uniforme che si voleva instaurare dal punto di vista
linguistico.
Di questa lunga Via Crucis una
delle stazioni più dolorose è stata la proibizione dello sloveno
nelle chiese della Slavia nel 1933 da parte del governo fascista.
In quel frangente venne teorizzata e resa plasticamente
espressiva, ad opera dello scrittore sloveno France Bevk nel
romanzo Kaplan Martin čedermac, la figura del «čedermac», del
sacerdote coraggioso, difensore dei diritto della propria gente.
Pubblicato nel 1938, fu, si direbbe oggi, un «instant book» che
denunciò al mondo la situazione venutasi a creare allora in
Benecia e immortalò le figure dei sacerdoti delle Valli del
Natisone in quel don Martin čedermac, che può essere visto come
una personalità corporativa, il prototipo in cui si possono
riconoscere i sacerdoti più combattivi delle Valli.
Nel 1933 furono ordinati sacerdoti
i monsignori Pasquale Guion, Valentino Birtig, Angelo Cracina,
Zaccaria Succaglia, l’anno seguente don Mario Laurencig; in quell’anno
erano in piena attività don Antonio Cuffolo a Lasiz, don Giuseppe
Cramaro ad Antro, don Giovanni Guion ad Azzida (zio di don
Pasquale), don Pietro Qualizza a Vernasso, don Giuseppe Simiz di
Mersino (i cinque del cosiddetto Aventino di Antro), don Antonio
Domenis a Drenchia, don Natale Zufferli a Codromaz. Mons. Ivan
Trinko era il loro padre spirituale con il quale essi si
consigliavano sul modo di comportarsi di fronte ai soprusi
dell’autorità civile e l’incomprensione dei superiori.
Proprio nel 1933 è avvenuto questo
incontro, questa saldatura tra le vecchie e le nuove generazioni
di čedermaci, il cui messaggio e testimonianza, grazie al lungo
arco della vita di mons. Guion, sono arrivati fino all’alba del
terzo millennio.
(GIORGIO BANCHIG -
LA VITA CATTOLICA SABATO 18 APRILE
2009)
Nella foto: sacerdoti della forania
di S. Pietro al Natisone agli anni ‘50 con la loro guida
spirituale, mons. Ivan Trinko (al centro col cappello).
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