La lezione di pre Beline
ROBERTO IACOVISSI –
La Vita Cattolica del 25 Aprile
2008
Pierantonio
Bellina era nato a Venzone l’11 febbraio 1941. Sacerdote,
scrittore e intellettuale autonomista, è stato uno dei
protagonisti di «Glesie furlane», ha tradotto la Bibbia in
marilenghe, pubblicato una cinquantina di libri, diretto il
mensile «La Patrie dal Friûl». È stato l’autore di una
seguitissima rubrica sulle pagine della Vita Cattolica, «Cirint
lis olmis di Diu». Domenica 27 aprile, alle 18, nel duomo di
Venzone, pre Bellina sarà ricordato a un anno dalla morte con la
celebrazione di una S. Messa, preceduta da testimonianze.
Al
suo popolo continuamente additava il valore di una dignità
irrinunciabile: quella dell’essere sempre sé stessi, assieme
alla necessità della affermazione della propria identità e della
propria cultura. Pre Antoni si interrogava con partecipazione
personale e sapienza sulla rivelazione delle Scritture all’uomo
d’oggi per cercarne una incarnazione nella vita dei suoi fedeli
ed in quella sua personale
NEL 1995 DON PIERANTONIO BELLINA
(nella foto)
si era recato pellegrino in terra santa, e l’anno successivo si
era recato a Santiago di Compostela con alcuni amici. Aveva
raccontato queste due esperienze, tappe importanti del
pellegrinaggio della sua vita su questa terra in due libriccini,
come sempre ricchi di profonde riflessioni ed intuizioni, «Impressions
di un levit furlan in Tiere Sante» e «A Sant Jacum, là che al
finis il mont». Il primo, diario di viaggio che attraverso la
scoperta dei luoghi della Terra Santa rilegge la parola di Dio
incarnata nella storia antica ed in quella attuale del suo popolo,
quello friulano; il secondo sorta di diario spirituale di un
viaggio «lunc la strade di Sant Jacum».
Anche per pre Antoni, come per la maggioranza dei fedeli, questi
pellegrinaggi avranno un ruolo importante per la sua esperienza di
uomo e di prete. «I grancj pelegrinaçs no dome a dividevin la vite
in sens cronologjic, ma in sens spirituâl e propit parcè che la
esperienze dal pelegrinaç, preparade, vivude, patide ju gambiave
dal dentri. No jerin plui chei di prime, e si viodeve cheste
diference te lôr cuotidianitât».
Ma anche per lui, come per tutti gli uomini di questa
terra, del resto, nessun santuario ha mai potuto sostituire il
pellegrinaggio più grande, difficile, impegnativo mai richiesto
all’uomo: quello fin dentro al suo cuore, là dove la sua povera,
debole umanità si incontra con l’eterno splendore di Dio. Il suo
pellegrinaggio terrestre, pre Antoni, l’aveva chiuso una domenica
d’aprile di un anno fa, quando aveva telefonato al fedele nonzolo
dicendo che non si sentiva bene e che aveva bisogno di aiuto, ma
prima che qualcuno lo avesse potuto aiutare era caduto a terra,
morto, davanti alla sua chiesa di Basagliapenta, davanti a quella
chiesa che aveva varcato in una calda giornata del giugno 1982,
indossando un bianco abito talare con impressa l’aquila
patriarcale, emblema dell’antico Stato Patriarcale, con la quale,
come aveva espressamente chiesto, sarà poi sepolto.
Pre Antoni era anche un autonomista convinto. In
occasione del 60° anniversario della «Patrie dal Friûl», il foglio
autonomista di Felix Marchi e pre Bepo Marchetti, aveva scritto
per il quotidiano «Il Gazzettino» un bell’articolo ricco di
speranza nel quale affermava che «nonostante i risultati deludenti
"de semence butade", noi continuiamo a seminare, a tenere accesa
la fiamma della autonomia. Le difficoltà sono le stesse degli
inizi, anche se non è uguale la autorità e la autorevolezza dei
pionieri. Resta sempre saldo questo desiderio di autonomia, questa
coscienza di una identità e alterità. Si tratta di continuare
sperando nelle sorprese della storia e soprattutto nella
intelligenza della nostra gente».
Era stato proprio quell’abito con l’aquila patriarcale
impressa, assieme alle sue omelie in marilenghe ed i suoi tanti
libri, la manifestazione più sincera e costante dell’amore
profondo per la sua terra, per la sua gente, per la sua lingua e
per la sua cultura; in una parola, dell’amore indiscusso e sempre
proclamato che nutriva per il suo popolo, al quale continuamente
additava il valore di una dignità irrinunciabile: quella
dell’essere sempre sé stessi, assieme alla necessità della
affermazione della propria identità e della propria cultura.
E proprio per sostenere il suo popolo in questa
affermazione di identità, dopo 15 anni di lavoro, gli aveva donato
la traduzione della Bibbia in friulano, la traduzione del Libro
che lo aiutasse a nutrire la sua anima e la sua cultura, per
ascoltare Dio che gli parlava nella sua lingua madre ed in quella
lingua potergli rispondere.
Perché pre Antoni conosceva bene il valore e la forza
profetica della parola: di quella detta e di quella scritta,
specialmente per la sua continua e spasimante lettura delle Sacre
Scritture.
Quella parola era stata, per lui, fonte cristallina di
acqua pura, parola con la quale confidarsi e della quale fidarsi
prima di ogni cosa, parola che trovava spesso espressione
incarnata nella sua costante collaborazione al settimanale «la
Vita Cattolica» con i suoi seguitissimi interventi nella rubrica «Cirint
lis olmis di Diu», alla ricerca appunto delle tracce di Dio nella
storia di ogni giorno; interventi che costituiscono forse la sua
più elevata opera teologica e letteraria, vero ultimo dono di un
uomo tormentato ma fedele nella sua missione di sacerdote e
maestro quale egli era.
Pre Antoni, in queste meditazioni sulle Scritture che
scaturivano sempre da una lettura attenta dei fatti della vita che
lo vedevano coinvolto, si interrogava con profondità, sapienza e
partecipazione personale sulla rivelazione delle Scritture
all’uomo d’oggi, non per una esegesi fine a sé stessa, ma per
cercarne una incarnazione nella vita dei suoi fedeli ed in quella
sua personale.
E proprio in riferimento agli interventi puntuali di
pre Antoni su «la Vita Cattolica» il professor Remo Cacitti,
docente di Storia del cristianesimo all’Università Statale di
Milano, nella sua postfazione a «Un cîl cence stelis», breve
raccolta degli scritti di pre Antoni nella rubrica «Cirint lis
olmis di Diu», aveva scritto che la figura di don Bellina «si
staglia con vigorosa personalità non solo nel panorama della
lingua e della letteratura friulane, ma anche in quella del
Cristianesimo nella terra di Aquileia».
L’ultima delle sue collaborazioni a questo settimanale
era stata pubblicata nell’edizione di sabato 21 aprile, il giorno
prima della sua prematura scomparsa, ed era una meditazione che, a
posteriori, appare come una sorta di profezia del suo destino di
uomo che sente di essere vicino all’incontro con il suo Signore.
Scriveva, con profetica intuizione: «O vevi juste celebrade la
Pasche cun lis mês comunitâts – nonostante le cattive condizioni
di salute, pre Antoni aveva accettato di seguire anche un’altra
parrocchia oltre la sua – cuant che, a colp, mi à brincât il mâl e
o soi tornât a plombâ tal scûr orent dal Vinars sant, cu la vite
che ti sta bandonant e cu la sensazion di jessi rivât insomp (o
dapît) de tô corse».
Non poteva, pre Antoni, negare la durezza della vita,
che gli aveva riservato tante sofferenze nelle spirito e nel
corpo, e non si faceva illusioni. In quell’«insomp» e in quel «dapît»
della vita sta forse l’ultimo, e più terribilmente sofferto
interrogativo di quest’uomo e di questo prete che nella sua vita
non si è mai accontentato di verità precostituite da consumare
senza tormento, per arrivare alla verità che ci fa liberi.
Era anche, il suo, il grido dell’uomo che dalle
profondità della sua condizione esistenziale chiama Dio: «Dal
profondo della mia situazione personale, esistenziale, sanitaria,
psicologica, spirituale ed umana, anch’io grido verso il Signore –
aveva proclamato in uno dei suoi ultimi lavori, scritto durante la
nuova malattia che l’aveva colpito nel 2003, "De Profundis",
recentemente tradotto in italiano da Gianni Bellinetti col titolo
"Dal Profondo" – sperando che ascolti la mia voce e che siano
attente le sue orecchie alla voce della mia preghiera».
Ma anche un grido verso il mondo, «un mondo doloroso e
misterioso – di cui lui si sentiva pienamente partecipe – dove
vita e morte si incrociano, si mescolano, e si scontrano senza
tregua, e ognuna vive e si nutre dell’altra». E soprattutto verso
gli uomini, verso le persone di quel popolo che tanto amava, un
grido non come forma di rimprovero, ma quasi come invocazione
imperiosa di richiesta di affetto, di non dimenticare: «Quando
sono arrivato in questo mondo, chi se ne è accorto? Quando me ne
andrò, chi si scomporrà? Chi può perdere tempo ad ascoltare il mio
grido, dal momento che tutti gridano la loro passione, e questo
grido cosmico è tanto grande, tanto tremendo, tanto angosciante
che non si riesce a sentire alcun tipo di suono? Come quando tutti
piangono».
Un grido di dolore, il suo, che dichiaratamente si
univa al dolore del mondo. Ma che qualcuno, anche qui sulla terra,
ha sicuramente ascoltato. |