MONS.
PIETRO BROLLO RIPERCORRE LE TAPPE DEL SUO SACERDOZIO
DALLA VOCAZIONE A TOLMEZZO ALLA GUIDA DELLA
CHIESA UDINESE
Pescatore per il Signore
PORTARE
GLI UOMINI al Signore. È questo il senso del sacerdozio. È
questo il servizio che mons. Pietro Brollo, Arcivescovo di
Udine, compie da 50 anni, da quel 17 marzo 1957 in cui è stato
ordinato prete nel duomo di Tolmezzo. La frase evangelica «In
verbo tuo laxabo rete» (Sulla tua parola getterò la mia rete) è
il motto della sua vita. L’ha inserita nel suo stemma
episcopale, ma la porta nel cuore fin dall’infanzia. «Ci sono
due aspetti: l’essere pescatore di uomini, ma soprattutto il
fidarsi della parola del Signore – spiega alla Vita Cattolica,
ripercorrendo le tappe del suo ministero –. Il compito per il
quale mi stavo preparando cinquant’anni fa e che in qualche modo
poi ho cercato di assolvere andava al di là di quello che uno
può stimare come propria capacità. Per questo, fin dall’inizio
ho pensato che alla fine c’è sempre il Signore che realizza il
suo progetto attraverso di me. Insomma, nonostante la
perplessità nell’andare avanti, dovuta alla differenza tra
l’ideale che stavo per abbracciare e invece quelle che mi
parevano le mie possibilità, alla fin fine mi sono fidato della
chiamata del Signore, convinto che in qualche modo il Signore si
serviva di me ed operava in me. Di qui una maggiore fiducia in
me stesso».
Eccellenza, quando ha sentito la chiamata del Signore? -
«È stato in quinta elementare, quando ho dovuto scegliere se fare
l’esame di ammissione per le Medie oppure seguire le orme di mio
padre, che insegnava nella scuola professionale. Ricordo questa
prima battaglia interiore. Avevo un po’ di riluttanza a dire o a
manifestare questa vocazione e però cercavo di convincermi. Alla
fine sono riuscito a dirlo al cappellano di allora, don Carlo
Englaro, e a don Egidio Fant. A quel punto la cosa è scattata e ho
ripreso in ritardo la preparazione per gli esami di ammissione
alla scuola media. Poi, negli anni medie prima e poi del ginnasio
c’è stata un’evoluzione con alti e bassi. Però l’orientamento
restava, pur se non così preciso e chiaro. In quarta e quinta
ginnasio, al "don Bosco" di Tolmezzo, è sorta la volontà di
concretizzare la scelta iniziale di arrivare al sacerdozio. C’era
anche l’opzione di andare con i Salesiani, ma ho deciso di entrare
nel Seminario arcivescovile di Udine».
Qual è stata la molla che ha fatto scattare la scelta? -
«Non so dirlo con precisione. Probabilmente mi vedevo molto più
impegnato nella realtà della diocesi. Non sentivo che la mia
vocazione fosse fare il religioso».
Quindi gli anni di studio a Udine. -
«L’impatto con il Seminario ha provocato dentro di me un passaggio
interessante. Mi immaginavo di trovare ragazzi perfetti, dei
"piccoli santi", invece ho trovato giovani come gli altri. Allora
c’è stato un lavorìo interiore che mi ha permesso di superare la
meraviglia iniziale e trovare in parecchi compagni quello che era
un chiaro orientamento di vita. Ciò mi ha portato ad un tipo di
adesione molto più matura. Lo studio non mi ha creato mai grossi
problemi. E non ho vissuto i traumi che qualcuno ha descritto del
Seminario. A Udine ho fatto tre anni di liceo più l’anno di
propedeutica».
Poi l’esperienza a Roma.Com’è stata? -
«Quando il rettore mons. Fantini mi ha fatto la proposta del
Seminario romano sono rimasto sbalordito. Da un lato ero contento
perché c’era l’idealizzazione della facoltà romana. Dall’altra
c’era la preoccupazione per la questione economica. Laggiù il
Seminario costava un po’ di più e noi eravamo una famiglia con
tanti fratelli e solo il papà lavorava. Ma io ho sempre pensato
che la chiamata domanda una risposta, a meno di grosse difficoltà.
Per cui dovevo rispondere di sì. E così ho fatto e sono partito».
Ha provato un senso del distacco dalla propria terra? -
«Tornavo a casa solo un mese all’anno d’estate. Però i legami col
Friuli sono rimasti sempre. Con la famiglia avevo un legame
talmente forte, per cui la distanza non ha creato distacchi
particolari».
Il 17 marzo del 1957 l’ordinazione.Come la ricorda? -
«Più impegnativo per me, dal punto di vista spirituale, era stato
il suddiaconato un anno prima, quando avevo assunto tutti gli
impegni propri del presbitero. Comunque, il momento
dell’ordinazione, nel duomo di Tolmezzo da parte di mons. Giuseppe
Zaffonato è stato molto forte. Nonostante l’ora, le 5.30 del
mattino a causa della visita pastorale dell’Arcivescovo, la
tonalità spirituale era molto elevata. Anche la prima messa, il
giorno di S. Giuseppe, è stata un momento particolare di gioia e
di festa. Dopo i vespri, ricordo di avere sviluppato il tema del
rapporto con il Vangelo della trasfigurazione, dicendo che
effettivamente anche l’ordinazione era un momento particolare di
gioia: tutti ti sono vicini, ti fanno le felicitazioni, le
congratulazioni e bisogna tenere questo tipo di esperienza
positiva per i momenti più impegnativi e difficili».
Il suo primo impegno pastorale è stato quello di insegnante nel
Seminario di Castellerio. -
«Prima sono tornato a Roma per fare il quinto anno di Teologia e
poi, quando sono rientrato, sono stato chiamato a Castellerio. Il
numero di allievi era molto significativo. Ho incominciato ad
insegnare Lettere in prima media con una classe di 36 alunni. E
c’erano tre sezioni: 108 ragazzi».
Così ha realizzato un sogno che aveva fin dai tempi di Tolmezzo:
lavorare con i giovani. -
«Sì, e credo di averlo fatto anche abbastanza bene. Mi dicevano
che ero abbastanza severo e penso di esserlo stato. Però due cose
le ho certamente mantenute: non ho fatto parzialità con nessuno e
la severità era sempre in funzione della formazione dei ragazzi.
Inoltre in questo periodo facevo il servizio di cappellano
festivo: ho incominciato a Turrida di Sedegliano per passare
subito a Passons. Dopo cinque anni sono andato ai Rizzi, dove
potevo dare più tempo perché avevo concluso gli studi con la
laurea in Teologia. Lì l’impegno pastorale è stato intenso».
Da giovane sacerdote ha vissuto il Concilio Vaticano II. Quali
sono state le scelte che hanno modificato il suo esser prete? -
«Io avevo due riferimenti abbastanza significativi che mi
aiutavano nella mediazione per la comprensione del nuovo che
veniva avanti: uno era dato dal collegio degli insegnanti, sia di
Castellerio che di Udine. L’altro era un impegno più diretto non
tanto in questo caso con l’azione pastorale che svolgevo ai Rizzi,
ma con quella che svolgevo con la Fuci, di cui sono stato vice
assistente con mons. De Santa e don Micolini. Mons. De Santa era
un sacerdote capace di mediazione. Così il nuovo non è calato in
modo traumatico. Mi ricordo mons. Ferino, che era il dogmatico per
eccellenza, quindi sembrava la persona rigida, che manifestava la
propria gioia nel vedere come il Concilio Vaticano II desse la
stura a idee che anche lui in qualche modo coltivava e che magari
non poteva dire così apertamente come magari desiderava. Io però
non ero impegnato nell’insegnamento della Teologia e questo
evidentemente ha un po’ attutito l’impatto con il Concilio
Vaticano II. Certo, l’insegnamento che avevo ricevuto a Roma era
preconciliare. I dibattiti erano, tutto sommato, un po’ astratti.
Il Concilio vissuto qui, in Friuli, mi è sembrato più
arricchente».
Nel 1972 è stato chiamato all’incarico di rettore del Seminario
maggiore. -
«Prima avevo fatto il preside del Seminario minore ed avevo
guidato la parificazione del liceo ginnasio San Bernardino, aperto
anche ai laici. Eravamo già oltre il ’68 e cominciavano le
contestazioni, anche all’interno del Seminario. Bisognava condurre
con pazienza e con calma le varie situazioni, le assemblee. Ce
n’erano abbastanza, anche se non come nelle scuole pubbliche. Però
c’era la stessa aria, la stessa vivacità. Poi nel ’72 mons.
Zaffonato mi ha chiesto di fare il rettore. Sono rimasto stupito
per due motivi: primo perché non mi aspettavo una cosa di questo
genere; secondo perché l’arcivescovo aveva fatto una
consultazione tra i preti e a me sembrava di non essere un prete
conosciuto. Sono stati anni molto, molto difficili. Forse i più
difficili dal punto di vista pastorale del mio impegno
sacerdotale. Era il periodo in cui il seminario era combattuto da
diverse parti: c’erano i tradizionalisti, che dicevano che il
Seminario si stava sfasciando perché non esigeva più niente; altri
sostenevano che era finita l’era del Seminario come istituzione. E
anche all’interno del Seminario stesso c’erano queste due
posizioni».
Probabilmente in quel momento la società risentiva del ’68 ed
anche nella comunità diocesana si viveva una sorta di smarrimento.
«Certo, in quei periodi si sono sperimentate tante cose: la più
eclatante è stata quella dell’alternativa, per cui un certo numero
di seminaristi procedeva nella formazione attraverso l’impegno in
varie parrocchie, in varie comunità fuori dal Seminario. Altri
erano dentro e io mi trovavo molto critico verso alcuni modi,
alcuni percorsi che si facevano: mi sembrava che questo sistema
non consentisse una formazione sufficientemente valida, tanto è
vero che ad un certo punto mi sono sentito in difficoltà ed ho
detto al vescovo: "Se crede che io sia troppo rigido, vado
volentieri in pastorale perché mi sento fatto per questo". E così
sono andato in pastorale».
Dove? -
«C’erano due parrocchie libere: Buttrio e Ampezzo. Ho detto al
vescovo: desidero essere un "mandato", e lui mi ha destinato ad
Ampezzo. Io sono stato contento perché lavorare nella mia Carnia
mi gratificava, e poi mi sentivo in sintonia con la gente. È stato
indubbiamente un periodo molto bello, favorito anche dal fatto che
dopo il primo anno sono venuti da me due seminaristi ora
sacerdoti: mons. Pietro Piller e don Marco Visintini. Abbiamo
lavorato tanto con i giovani. Poi mons. Battisti mi ha chiamato
chiedendomi di andare a Gemona. Un’altra chiamata difficile, tanto
è vero che io ho cercato di opporre tutto il possibile per non
lasciare l’esperienza con i giovani. Ma quando il vescovo mi ha
chiesto di andare ugualmente, ai ragazzi di Ampezzo ho detto:
prima la mia decisione era rimanere qui con voi, adesso la mia
volontà è di andare. Voi sapete bene che non è mancanza di amore e
di affetto verso di voi ma perché credo che la volontà di Dio
passi attraverso il superiore che mi chiede questo servizio».
«Apprestandomi ad andare a Gemona non mi sono preoccupato né di
dove andare ad abitare né di come organizzare la vita familiare.
Arrivando in una comunità che annoverava circa 400 morti e non
avendo vissuto con essa la tragedia, mi domandavo se sarei
riuscito ad essere punto di riferimento ed anima per questa gente.
La grazia di Dio mi ha aiutato e ci siamo trovati in ottima
sintonia. Una intuizione iniziale è stata vincente. Nel primo
incontro con il cappellano don Angelo Fabris, mi sono ricordato
del grande prefabbricato a Salcons e gli ho detto: "Ma non
potremmo fare in questo luogo il punto di riferimento della
parrocchia?". Così abbiamo attrezzato il prefabbricato ponendo
dentro parecchi simboli del Duomo. Da lì poi è venuto tutto
l’impegno pastorale che consisteva nel ricostruire un po’ i quadri
che il terremoto aveva scompaginato. E sono rimasto meravigliato
dall’enorme disponibilità di quella gente, ad esempio quando
rimettevo in piedi il gruppo dei catechisti. Abbiamo creato un
grosso gruppo di collaboratori che ci sono ancora. È stato un
momento molto bello».
Il
terremoto del 1976 è stato uno spartiacque. Come ha vissuto quei
tempi? -
«Il
salto c’è stato. In maniera molto evidente sotto l’aspetto
economico: il Friuli è cresciuto. Però non so quanto il fenomeno
sia imputabile al terremoto e quanto al veloce cambiamento di
mentalità che anche nel resto dell’Italia e del mondo stava
avvenendo. E il maggiore benessere diffondendosi rendeva più
difficile la vita ecclesiale. A Gemona la ricostruzione aveva reso
molto attiva la popolazione. Quando ho dovuto partire, la comunità
stava tornando nelle case ricostruite. E mi sono chiesto cosa si
potesse fare perché la gente non si "sedesse in poltrona", non si
adagiasse in un borghesismo eccessivo. La ricerca della risposta
mi ha visto impegnato non più a Gemona, ma a Udine come vescovo
ausiliare».
Nel 1985 viene eletto vescovo ausiliare e mons. Battisti le affida
anche l’incarico di vicario generale dell’Arcidiocesi. -
«E
anche quella volta ho vissuto un grosso distacco. Il giorno della
consacrazione episcopale, il 4 gennaio 1986, è stato molto
intenso: eravamo verso la fine della ricostruzione, si rientrava
nel duomo appena rimesso a nuovo. C’era un insieme di fattori e di
motivi che hanno dato a questo momento una carica che credo sia
unica, sentita sia da me che dalla gente della comunità di Gemona».
Come ricorda i 5 anni da primo collaboratore di mons.Battisti? -
«Nella
prima parte c’era il grande impegno per la conclusione del Sinodo
diocesano. Questo era il motivo per cui il vescovo mi aveva
voluto. Poi mi hanno occupato di più il compito di vicario
generale e l’amministrazione della Cresima. Per me è stata
l’occasione per una conoscenza molto più capillare di tutta la
realtà diocesana. Ciò mi ha permesso di conoscere i sacerdoti ed
anche le comunità. Queste visite diventavano abbastanza
significative ed importanti».
È
stato anche questo un periodo di forte cambiamento per la nostra
Chiesa locale: accorpamento di parrocchie, foranie,
ridistribuzione del clero. -
on era
ancora molto accentuata la carenza dei sacerdoti, però la
necessaria ristrutturazione ha portato ad un notevole cambiamento.
Da un periodo di contrapposizione tra le diverse anime nella
nostra Arcidiocesi, non sempre riconducibili a unità, si è passati
a porre l’accento sulla grossa difficoltà della nostra Chiesa in
termini di servizio pastorale».
Nel 1996 il Santo Padre la chiama a guidare la Diocesi di Belluno.
-
«Anche
quella chiamata è stata inaspettata. Pensavo di essere tranquillo
a Udine almeno fino a quando ci fosse stato mons. Battisti. Per me
è stato il passaggio alla responsabilità diretta di una Chiesa
locale, un impegno molto coinvolgente».
Quando partiva per Belluno, c’era la sensazione di vederla
tornare... -
«No,
io questo non lo pensavo. E nel 2000 non erano neanche cinque anni
che ero a Belluno. Oramai l’età andava avanti, stavo dando gli
ultimi anni dell’attività pastorale e forse la Diocesi di Udine
poteva avere bisogno di qualcosa di diverso. Quando la nomina è
arrivata qualcuno mi diceva: almeno lei conosce la realtà; e io
rispondevo: proprio perché la conosco, le difficoltà mi
preoccupano parecchio».
Però i friulani sono contenti di avere un vescovo friulano. -
«Con
la gente qui mi trovo bene. Quando vado a cresimare c’è un dialogo
molto bello. Nel governo dell’Arcidiocesi mi sono assunto in prima
persona le decisioni che è giusto che un Vescovo prenda. Anche
questo alle volte scontenta qualcuno».
Il
suo ministero a Udine è all’insegna della pastorale di comunione.
-
«Già
prima di andar via da Udine, con mons. Lucio Soravito, avevamo
gettato le prime basi di questa pastorale di comunione. Poi a
Belluno avevo già incominciato a impostare questa linea. Quando
sono tornato ho continuato. Del resto non vedo altre strade se non
questa. Credo ancora fermamente che se qualche cosa di importante
posso eventualmente lasciare sia questo stimolo affinché il
cammino di comunione vada avanti».
Il
passaggio dei laici dalla collaborazione alla corresponsabilità
richiede un salto culturale... -
«Certo, a questo credo e per questo mi sono impegnato a lavorare.
È un lavoro che domanda tempo, pazienza, attesa: è iniziato, ma
non concluso».
Eccellenza, lei si illumina quando parla delle cresime e dei
ragazzi. È un ritornare all’origine della sua vocazione? -
«Non ho tenuto il conto di quante cresime ho fatto, però posso
dire che non mi capita mai di fare una celebrazione di una cresima
di routine, perché l’impatto con i ragazzi automaticamente mi dà
un risonanza che non mi lascia mai indifferente».
Da
sacerdote che ha raggiunto il giubileo del cinquantesimo, cosa
dice ai giovani che si stanno preparando al presbiterato e a
quelli che stanno maturando una scelta vocazionale? -
«Per
me una delle constatazioni maggiori è stata scoprire la
rivelazione Cristo e del volto misericordioso del Padre, perché la
vita si muove in forza dell’amore. L’uomo ha bisogno di essere
amato e l’amore di Dio è più forte dei nostri limiti, delle nostre
mancanze. A noi compete riuscire a venir fuori da noi stessi,
sulla strada dell’amore non sulla strada della paura. Se tu ti
senti veramente amato da Dio fino in fondo, allora puoi fare
degnamente il pastore nei confronti degli altri. L’amore non può
che essere il primo metodo di impegno nell’apostolato, evitando
certi irrigidimenti che anche taluni sacerdoti a volte hanno. Ai
giovani che si preparano dico: fatelo però con piena sincerità,
non vivete mai con la maschera perché questo vi distrugge. E la
stessa cosa dico a tutti i giovani, affinché siano capaci di fare
un po’ di silenzio per entrare dentro se stessi, di interrogare la
propria vita per sapere di cosa hanno bisogno».
Come ha visto cambiare la società friulana in questo mezzo secolo?
-
«Ci
sono stati i cambiamenti drammaticamente vissuti un po’ da tutta
la società contemporanea. Il Friuli ha acquisito tanti valori e
tanti, purtroppo, ne ha distrutti. Dal terremoto in poi c’è stata
una presa di coscienza maggiore di quello che è la nostra
identità. E credo che scoprire le radici di fondo sia una valore
molto significativo. L’importante è che non ci si fermi a
posizioni più o meno folcloristiche, ma che effettivamente si vada
alle radici delle cose. Noi, quand’eravamo ragazzi, non avevamo
chiaro il problema della lingua friulana. C’era la vita cristiana
e c’era anche il friulano. C’era una realtà di valori che era
mediata dalla cultura friulana. Dire "par amôr di Diu" non era
solo una battuta, come adesso: c’era dentro una valenza, una
pregnanza. L’importante è che attraverso questi segni che ti
creano un rapporto di familiarità maggiore, si possa veicolare
anche i valori, che passano più per via affettiva che
intellettuale. Per questo, ad esempio, anche il fatto di potersi
sentire insieme friulani con friulani dovrebbe aiutare proprio per
via affettiva a recuperare i valori autentici della nostra
identità. Questo è il valore ultimo della lingua friulana».
Parafrasando un famoso motto catalano,possiamo anche dire il
Friuli o sarà cristiano o non sarà? -
«Certo, cosa resta altrimenti? Un po’ di folclore, non la
sostanza. L’aspetto positivo per me di essere friulano in Friuli è
che le persone che incontro sentono di essere capite e di capire.
Così il dialogo può avvenire in maniera molto più familiare. E la
familiarità è l’ambiente attraverso il quale può passare più
facilmente un certo valore».
Naturalmente bisogna rifuggire anche il pessimismo che dilaga... -
«Molto. Sono convinto che questa è una fase enorme di crescita.
Stiamo passando da una adolescenza umana ad una ricerca faticosa
di maturità, laddove tutte le scelte devono essere sempre di più
consapevoli. Facendo delle Cresime a Lignano con un gruppo di
giovani adulti emergeva la domanda sul perché non facciamo fare a
tutti il cammino di Cresima a questa età in cui uno può esserne
più consapevole. Credo che questo sia lo spiraglio di sereno che
si vede nell’oscurità delle attuali nubi».
A CURA DI
EZIO
GOSGNACH
-
(HANNO
COLLABORATO
STEFANO
DAMIANI
E
MARGHERITA
GRECO)
(LA VITA CATTOLICA - SABATO 17 MARZO 2007) |