Trieste - Parrocchia della Beata
Vergine del Soccorso
6 Febbraio
2005
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Trieste avvolta
dalla nebbia |
CAMPANE
L'interno della chiesa della
Beata Vergine del Soccorso, prima e durante la Messa.
CANTI
All'Offertorio ed alla fine
della Messa, è stato presentato un progetto di solidarietà
per aiutare una missione creata dalle Suore
della Divina Provvidenza nel Togo, Africa.
Carità e Missioni
In occasione
della canonizzazione di Padre Luigi Scrosoppi è stata promossa una
campagna per la raccolta di fondi destinati al potenziamento del
Centro medico di Kouvè in Togo. Questo centro è costruito e
gestito dalla Congregazione delle Suore della Provvidenza per
curare le varie malattie che opprimono il popolo africano. È sorta
così una nuova struttura, unica in questo paese, per far fronte
anche al nuovo e dilagante problema dell'AIDS.
Il governo togolese, retto da una dittatura, non è in grado di
garantire al suo popolo alcun tipo di servizio, anche per le
scarse risorse economiche del paese. Ai due diritti fondamentali,
"salute" e "istruzione", possono accedere, a pagamento, soltanto
pochissimi privilegiati. La grande maggioranza della popolazione,
perché povera, non può ne studiare ne curarsi.
Le Suore della Provvidenza, con le varie iniziative avviate in
Togo, rappresentano una delle poche risorse impegnate ad
assicurare a questa gente i loro fondamentali diritti; ma per
agire con efficacia devono poter contare sul "cuore" di coloro
che, anche a nome del proprio essere cristiani, decidono di farsi
Provvidenza.
A seguito di uno studio fatto sul territorio è stato messo a punto
un progetto per il sostegno dei costi del personale locale assunto
e gestito dalle Suore a partire dai medici e dagli infermieri,
fino al personale docente e di servizio in genere. La nostra
attuale cultura missionaria poggia sostanzialmente sullo strumento
dell'adozione a distanza di bambini e, in alcuni casi, di
ammalati.
Adottare (sostenere) un medico o un maestro, invece, significa
garantire un'assistenza professionale a centinaia di persone,
specialmente ai bambini, restituendo loro il diritto alla salute e
all'istruzione; significa inoltre promuovere la gente del luogo,
garantendo la dignità dello stipendio a famiglie attualmente senza
prospettive.
Un'altra singolare e importante proposta è l'adozione di una
novizia. Se sostenere un medico è un fatto importantissimo,
sostenere una ragazza per il periodo dei suoi studi e della sua
formazione affinchè possa diventare una suora della Provvidenza,
significa garantire continuità all'azione solidale verso questa
gente priva di speranza; le suore infatti rappresentano il futuro
della Congregazione e quindi di tutte le sue molteplici iniziative
di Carità.
TUTTI SIAMO
CHIAMATI
Solo la
nostra solidarietà può dar vita alla Carità
Per entrare
a far parte di un gruppo potete contattare:
Parrocchia tel. 040 301765 |
La chiesa della Beata
Vergine del Soccorso
(Tratto da: Guida alla visita storica e artistica della chiesa,
realizzata in proprio dalla parrocchia
Beata Vergine del Soccorso
Piazza Hortis 34124 Trieste - Tel. 040
302488)
Cenni storici
L'area su cui oggi sorge la chiesa della Beata Vergine del Soccorso
si trovava, in epoca romana, al di fuori delle mura della città. Una
strada, in parte lastricata, scendeva dal colle di S. Vito verso la riva
del mare, che si spingeva a quel tempo molto più all'interno fino a
lambire le attuali piazza Cavana, via Cavana, piazza Hortis e via
Torino. Il quartiere viveva delle attività legate al porto, ma aveva
anche edifici residenziali. Questa zona, essendo fuori dalla cinta
muraria, era usata anche a scopi cimiteriali, come dimostrano parecchie
sepolture tardoantiche trovate nelle vicinanze.
Con il trascorrere dei secoli la fascia di terra compresa fra le pendici
del colle e la linea della costa andò aumentando e in età medioevale
cominciarono a sorgere, uno accanto all'altro, parecchi edifici
religiosi, sia conventuali che assistenziali, cinti da mura e circondati
da orti e vigneti. Il rione si raggiungeva uscendo di città dalla porta
di Cavana, sormontata da una lugubre torre nella quale venivano tenuti
per tre giorni i condannati a morte prima del supplizio. Si attraversava
poi un ponticello sui fosso della città, un rigagnolo maleodorante che
raccoglieva le acque del monte S. Michele, e si giungeva nel quartiere
dei Santi Martiri.
Vediamo gli edifìci religiosi
che vi sorgevano seguendo un ordine cronologico di fondazione.
Il più antico di questi complessi pare
essere stata la chiesa dei Santi Martiri, annessa al convento dei
monaci Benedettini, sulla quale si hanno documenti sicuri fin dai primi
decenni del XII secolo. Era una chiesetta a navata unica, di proporzioni
modeste, circa 90 m, ma particolarmente amata dai fedeli perché, secondo
la tradizione, sorgeva sul luogo in cui erano stati sepolti i primi
martiri cristiani. Attorno al convento, vi era una grande zona coltivata
a vigna, a orto e a giardino per le piante medicinali. Il complesso
occupava l'area fra le attuali via Ciamician, via Ss. Martiri e via
Torino (la via duca d'Aosta fu aperta molti anni dopo attraversando le
terre del monastero).
Nel Settecento (1736) i Benedettini dovettero abbandonare Trieste e il
convento fu in seguito occupato dai Padri Armeni Mechitaristi che
intitolarono la chiesa a S. Lucia e rimasero a Trieste fino ai
primi dell'Ottocento sistemando nel convento il vescovado armeno e il
seminario e aprendo una stamperia per volumi in lingue orientali. La
chiesa di S.Lucia fu sconsacrata nel 1810 e trasformata in magazzino con
osteria e il convento divenne casa di abitazione; nel 1839 gli edifici
furono demoliti.
La chiesa della Madonna del Mare sorgeva nei pressi di una
basilica suburbana tardoantica con pavimenti mosaicati e cosparsi di
epigrafi di offerenti che costituiscono la testimonianza più antica
della vita cristiana a Trieste. Non ci sono elementi sufficienti a
documentare una continuità di culto fra la fase paleocristiana e quella
medioevale, anche se ciò è probabile. La costruzione medioevale, già
nota in documenti del 1298, era a pianta basilicale con tre navate.
Distrutta da un incendio il 1° gennaio 1655 durante una notte di bora,
fu riedificata, a navata unica, in brevissimo tempo grazie alle offerte
dei fedeli. Presso la chiesa avevano sede due confraternite, quella dei
facchini (o brighenti) e quella dei contadini; all'intorno si estendeva
il cimitero per gli abitanti del quartiere. Accanto alla Madonna del
Mare fu costruita nel 1731 la cappella di S. Vincenzo di Paola.
La chiesa e la cappella furono sconsacrate nel 1784. Al posto della
chiesa, distrutta nel 1786, sorse una casa di abitazione (n. 7 di via
Madonna del Mare), la cappella, demolita nel 1785, lasciò dapprima
spazio a un giardino e attualmente all'autorimessa con entrata in
piazzetta S. Lucia.
La chiesa dell'Annunziata,
annessa all'ospedale femminile, sorgeva dove si trova ora la Curia
Vescovile (palazzo Vicco). In epoca romana il luogo era occupato da un
edificio residenziale con pavimenti mosaicati, probabilmente una villa
che si affacciava sul mare. L'ospedale fu gestito dai padri Crociferi
dal XIV secolo fino agli inizi del 1600, quando questo ordine abbandonò
Trieste. Dal 1627 l'ospedale e la chiesa furono affidati alle cure dei
Padri Ospitalieri di S. Giovanni di Dio dell'Ordine dei Fatebenefratelli.
La chiesa era molto semplice e aveva un solo altare ligneo dedicato alla
Beata Vergine Annunziata. L'ospedale rimase deserto a partire dal 1770
quando le donne che vi erano ricoverate furono trasferite nel nuovo
Ospedale Generale e Casa dei Poveri costruito per ordine di Maria Teresa
e ultimato nel 1769. La vecchia struttura fu temporaneamente usata come
ospedale militare durante le guerre napoleoniche, poi sia l'ospedale che
la chiesa furono soppressi da Giuseppe II nel 1786 e furono demoliti nel
1795. Sull'area sorse l'abitazione del commerciante Antonio Vicco nella
quale terminò i suoi giorni Giuseppe Fouché duca d'Otranto (1759-1820),
per lungo tempo potentissimo e temuto ministro francese di polizia.
Dalla metà dell'Ottocento è sede della Curia vescovile.
L'ospedale maschile fu
intitolato a S. Giusto perché sorgeva nei pressi del luogo in
cui, secondo la tradizione, fu ritrovato il corpo del Martire. Come
quello femminile, fu retto dapprima dai Padri Crociferi; si hanno
notizie che lo riguardano risalenti al 1330. Vi si ricoveravano soltanto
i malati non colpiti da morbi infettivi; quelli contagiosi erano tenuti
in un apposito lazzaretto. La chiesa di S. Bernardino annessa
all'ospedale fu edificata probabilmente nel 1500. I Fatebenefratelli
assunsero la cura anche di questo ospedale nel 1624, e intrapresero
grandi lavori di restauro nel 1672. L'edifìcio fu alzato di un piano e
ingrandito e la chiesa fu dotata di due altari uno con la statua di S.
Giovanni di Dio che porta sulle spalle un infermo e l'altro con
un'immagine della Madonna di Passavia; fu inoltre costruito un campanile
munito di due campane. Accanto all'ospedale vi erano orti e un piccolo
cimitero. Gli edifìci, soppressi da Giuseppe II, furono acquistati da
privati nel 1787, quindi demoliti per far posto all'isolato compreso fra
via S. Giorgio, via Torino e via Diaz, che nella forma triangolare
rispecchia ancora l'andamento degli edifici e dei muri di confine
antichi.
Il convento dei Capuccini, con
la chiesa di S.Apollinare, è il complesso religioso più recente
del quartiere dei Ss. Martiri. I Cappuccini giunsero a Trieste nel 1617
e la chiesa fu consacrata il 24 aprile 1623 dal vescovo fra Rinaldo
Scarlicchio. Il convento aveva circa 30 celle, la libreria, il
refettorio, la cucina e la lavanderia; era circondato da grandi orti e
chiuso da mura. La chiesa, la cui entrata si trovava su via Cavana, era
molto semplice e spoglia, misurava 24,6 m per 9,5 m e aveva tré altari
di legno dedicati a S. Apollinare, alla Vergine Costantinopolitana e al
Beato Felice di Cantalice, cappuccino.
Per ordine sovrano il convento
fu soppresso nel 1783 e i frati furono allontanati dalla città l'anno
seguente, nonostante le suppliche della popolazio nell’786, adibiti per
breve tempo a ricovero per gli orfani e Ospitale degli schiffosi. L'anno
dopo furono venduti e abbattuti per costruire le case di abitazione
comprese fra via Cavana, via Felice Venezian, via Diaz e via
dell'Annunziata.
Tutti questi edifici - conventi, chiostri, ospedali e
chiese circondati da orti e giardini e cinti da mura - furono abbattuti,
come abbiamo visto, fra la fine del Settecento e i primi anni
dell'Ottocento per decreto sovrano. Le ragioni che portarono alla
demolizione di tanti complessi religiosi vanno ricercate nella linea
politica dell'imperatore Giuseppe II (1741-1790) volta all'incremento
del commercio e del traffico marittimo a Trieste. L'abolizione degli
Ordini religiosi e l'utilizzo delle proprietà immobiliari ecclesiastiche
metteva infatti a disposizione del Demanio grandi aree fabbricabili da
impiegare per scopi mercantili e civili. Una sola chiesa pubblica era
ritenuta sufficiente per il quartiere e la scelta, in questo caso, cadde
sulla Beata Vergine del Soccorso (S. Antonio Vecchio), perché era la più
spaziosa ed era in buone condizioni, essendo stata restaurata di
recente. Fu così che l'edificio venne risparmiato.
La fondazione del convento dei
frati Minori Conventuali e della chiesa ora dedicata alla Beata
Vergine del Soccorso risale a più di 750 anni fa. Secondo un'antica
tradizione, il primo nucleo della chiesa francescana sarebbe da
attribuire alla presenza di S.Antonio di Padova che, passando dalla
nostra città intorno al 1229, avrebbe sostato e predicato per qualche
tempo in questo luogo. Dai documenti d'archivio, risulta che il convento
francescano era già in costruzione nel 1229, mentre era vescovo di
Trieste Corrado Bojani della Pertica, e che la prima chiesetta, dedicata
fin dall'inizio alla Vergine Maria, ma nota ai fedeli come S. Francesco,
fu consacrata nel 1234 dal vescovo Givardo. Certo, all'inizio, si
trattava di edifici molto modesti, probabilmente una celletta o una
cappella con annesso un ospizio per la piccola comunità religiosa dei
francescani, ascritti alla Regola dei Minori Conventuali e dipendenti
dalla provincia dalmata di S. Girolamo. Gli edifici però, nel giro di
pochi anni, si ingrandirono, grazie anche al fatto che nel 1246 tredici
famiglie patrizie di Trieste, che si dicevano discendenti dai decurioni
romani, fondarono presso questa chiesa una confraternita, detta "dei
Nobili" o "delle Tredici Casade". Secondo il rigidissimo statuto, il
numero dei confratelli non doveva mai essere superiore a quaranta, gli
iscritti dovevano essere discendenti diretti dei fondatori e i membri di
queste famiglie potevano contrarre matrimonio soltanto fra di loro;
erano vietate anche le unioni con nobili di altre città pur di antica e
provata discendenza. Queste famiglie aristocratiche e facoltose
contribuirono, nel corso degli anni, con lasciti e donazioni, ad
arricchire l'edificio che all'inizio aveva un solo altare di legno
intitolato alla Vergine Immacolata.
In seguito le cronache riportano
notizie della costruzione di altri altari: nel 1478 il patrizio Lorenzo
de Bonomo fece edificare la cappella dell'Annunziata con l'altare, la
famiglia dell'Argento offrì l'altare di S. Francesco, la famiglia de
Marchesetti quello della Madonna del Carmine, i de Francol quello
dell'Angelo Custode e le tredici nobili casate quello dei Ss. Gioacchino
e Francesco; infine nel 1524 Domenico de Baseggio fece alzare l'altare
ligneo di S. Antonio dotandolo di una statua del Santo fatta scolpire ad
Ancona. Stando a queste notizie la chiesa avrebbe avuto nel 1560 sette
altari, di cui quattro o cinque marmorei.
Sul finire del Quattrocento il
convento e la chiesa, che erano stati gravemente danneggiati dai
disordini del 1469 (ricordato dalle cronache come l'anno della
"distruzione di Trieste" o del "sacomanno") e dalle forti scosse di
terremoto degli anni seguenti, furono radicalmente restaurati.
Dell'aspetto di questa prima chiesa non sappiamo molto; le scarse
notizie ci dicono che era priva di torre campanaria, ma aveva in
facciata un semplice campanile a vela con una sola campana per chiamare
i frati e i fedeli alle funzioni; sulle pareti esterne, per salvarle
dalla dispersione, erano murate alcune lapidi romane trovate nelle
vicinanze; all'interno il pavimento era cosparso di lastre tombali di
frati, di patrizi triestini e di illustri personaggi quali magistrati,
letterati e vescovi; altre tombe trovavano posto sotto alle arcate del
chiostro.
In occasione di un nuovo
restauro, nel 1560, mentre era padre guardiano il patrizio triestino fra
Giovanni de Jurco, la chiesa fu ampliata e dedicata a S. Francesco
d'Assisi. La famiglia de Burlo offrì l'altare marmoreo dell'Immacolata
Concezione che fu consacrato dal vescovo Orsino de Bertis il 22 marzo
1603. Il padre guardiano fra Antonio Frigerio restaurò nel 1695 gli
affreschi della cappella di S. Antonio raffiguranti i miracoli del Santo
e Andrea Civrani fece erigere nella stessa cappella l'altare in marmo,
in sostituzione di quello ligneo. I fedeli offrirono la somma necessaria
per erigere un bei campanile e dotarlo di due campane. In base agli atti
della visita pastorale del vescovo Giovanni Francesco Miller, nel 1693
la chiesa aveva ben sette altari, così elencati: "Crocefisso, Madona
Lauretana, Madona dei Carmini, Immacolata Concettione, Annonciata, S.
Francesco Serafico, S. Antonio da Padova".
Per quanto riguarda l'aspetto
esterno dell'edificio, un attento esame delle vedute più antiche della
città ha rivelato un elemento inedito. Un disegno di Vincenzo Coronelli,
datato 1688, ci mostra Trieste vista dal mare, cinta dalle mura e, sulla
destra, il quartiere dei Santi Martiri con le chiese e i conventi, tutti
chiaramente riconoscibili. Quello che stupisce è l'orientamento della
chiesa dei Minoriti (oggi Beata Vergine del Soccorso) che ha la facciata
a ovest, un robusto campanile accostato alla parte absidale e un
convento di proporzioni modeste, ma non indifferenti, sul lato verso il
mare. Data la cura e la minuzia di particolari con cui sono stati
rappresentati gli edifici, sembrerebbe da escludere un errore da parte
del famoso cartografo veneziano. Dobbiamo concludere che la chiesa
avesse un orientamento opposto a quello attuale, il che corrisponderebbe
all'assetto più antico e tradizionale che voleva l'abside ad oriente.
Una conferma ci viene anche da altre vedute che presentano la stessa
situazione. Ci sembra che questo sia un elemento nuovo da inserire nelle
vicende del nostro edificio di culto.
Nel XVII secolo presso la chiesa
aveva sede, oltre a quella dei Nobili già ricordata, anche un'altra
confraternita intitolata a S. Antonio Taumaturgo, la quale accettava fra
i suoi mèmbri sia patrizi che plebei. Il numero dei suoi iscritti era
andato via via aumentando soprattutto dopo che nel 1667, per delibera
del Consiglio Cittadino, S. Antonio di Padova era stato proclamato
conpatrono della città di Trieste assieme ai Santi Martiri locali.
L'avvenimento fu celebrato il 26 giugno di quello stesso anno con una
solenne processione dalla Cattedrale alla chiesa di S. Francesco, alla
quale parteciparono il vescovo, il capitolo, i magistrati, la nobiltà e
tutta la cittadinanza. L'elezione fu anche approvata dall'imperatore
Leopoldo I con un diploma, rilasciato da Graz il 16 febbraio 1668. La
devozione al Santo di Padova aumentò e i fedeli cominciarono a chiamare
la chiesa dei Minoriti S. Antonio invece di S. Francesco. Per parecchio
tempo le due confraternite convissero pacificamente, ma nel 1766 si
verificò un'accesa disputa circa il diritto di precedenza nella
processione del Santo e la confraternita di sant'Antonio Taumaturgo
abbandonò la chiesa dei francescani con gli stendardi e la statua e si
stabilì temporaneamente presso la chiesa del Rosario. Gli iscritti alla
confraternita stabilirono poi di fabbricare una propria chiesa, ciò che
fecero, con il permesso del vescovo Antonio Ferdinando conte di
Herbenstein. Sorse così la chiesa di S. Antonio Taumaturgo nel borgo
teresiano e il popolo, per distinguere le due chiese, le denominò con
semplicità S. Antonio Vecchio e S. Antonio Nuovo.
Il convento francescano di
Trieste che, come si è detto, fin dalla sua fondazione, aveva fatto
parte della provincia di Dalmazia e aveva ricevuto regolarmente le
visite del padre provinciale, nel 1668 fu sottomesso alla provincia
della Stiria, poiché l'autorità civile di Trieste, per ragioni
politiche, aveva negato l'accesso in città al Padre Provinciale della
Dalmazia. A questo proposito bisogna ricordare che l'imperatore Leopoldo
I, con risoluzione generale, cioè estesa a tutto il territorio, aveva
ordinato che nessun capo di convento nei suoi Stati potesse essere un
forestiero, ma dovesse essere soltanto un austriaco. Si comprenderà
perciò come il gusto d'oltralpe abbia influenzato sensibilmente gli
interventi artistici nell'edificio e come i legami con la chiesa di Graz
si siano fatti più stretti.
Nel 1761 si iniziarono estese
opere di ricostruzione, che si protrassero per molti anni. In questo
periodo, a nostro avviso, l'orientamento dell'edificio fu modificato. Al
termine dei lavori la chiesa venne riconsacrata e dedicata alla Beata
Vergine del Soccorso, a S. Francesco e S. Antonio, come ricorda
l'epigrafe latina nel cartiglio posto in facciata sopra alla porta
centrale.
Nel corso di questo radicale
restauro le antiche lapidi sepolcrali furono rimosse e andarono quasi
tutte disperse; furono conservati solo alcuni degli altari marmorei. Il
convento, addossato alla chiesa, si trasformò in un ampio edificio a due
piani con tre ali che racchiudevano un chiostro porticato, coltivato a
giardino, con pozzo centrale. Oltre alle celle per circa 25 frati, esso
ospitava: la cancelleria, l'infermeria, la foresteria, il refettorio, la
cucina, la lavanderia, la stalla e la rimessa e, soprattutto, una
splendida biblioteca con più di 5000 volumi, fra i quali manoscritti
preziosi e rare edizioni. Tutto il complesso era circondato da orti e
cinto da un alto muro e occupava l'arca compresa fra piazzetta S. Lucia,
via dell'Annunziata, via Diaz e via S. Giorgio chiudendo la via di
Cavana che terminava contro le mura del convento, sul lato destro della
chiesa, dove era situata l'unica porta di accesso alla clausura, detta
"porta battitora"; un'altra entrata, che portava agli orti, era lungo
la riva del mare. La chiesa aveva una porta
laterale, a destra, che si apriva sul chiostro e una cantoria alla quale
i frati potevano accedere direttamente dal piano superiore del convento.
Fra il 1783 e il 1785, per
decreto sovrano, gli ordini religiosi non assistenziali furono aboliti.
Di conseguenza l'archivio secolare, i manoscritti e i volumi della
biblioteca andarono quasi tutti perduti. Uno storico del secolo scorso,
don Pietro Tomasin, non sa nascondere l'angoscia nel riportare la
notizia: "Colla soppressione quasi tutto l'archivio di S. Francesco andò
perduto: i libri della biblioteca, preziosissimi, si gettarono alla
rinfusa nella soffitta della canonica di S. Antonio Nuovo, e tutti
decimati in gran parte e stracciati dalle serve di quei curati,
miseramente perirono.
Chi vide i residui può dare testimonianza della stupenda collezione di
volumi che devono aver posseduto i nostri Minoriti. Una sola opera potè
trovarsi completa da chi scrive queste memorie, ora a sue mani..... ".
Il convento, adibito temporaneamente a sede della cancelleria vescovile,
fu parzialmente demolito nel 1796 per prolungare la via di Cavana.
Durante il periodo della dominazione francese (1809-1813) il generale
Marmont nominò il barone Angelo Calafati Intendente delle Province
dell'Istria. Egli andò ad abitare nel palazzo Biserini (ora sede della
Biblioteca Civica) ed ebbe una predilezione speciale per la chiesa della
Beata Vegine del Soccorso. Nel giro di pochi mesi fece lastricare il
pavimento, "dopo levate le lapidi sepolcrali e riempite di terra le
sepolture", come riferisce il contemporaneo Mainati, fece inoltre
dipingere le pareti a damasco verde (!), erigere un fonte battesimale in
marmo pregiato e aggiungere un orologio al campanile. Ritenendo che i
resti del convento ancora in piedi offendessero la vista - e in effetti
erano pericolanti e malamente chiusi da assi di legno - li fece
abbattere per far posto a una piazza alberata che chiamò Piazza Lützen
in ricordo della vittoria riportata dai francesi contro i prussiani nel
1811. Nei progetti di abbellimento,
che Calafati affidò all'ingegner Pietro Nobile, erano previsti due
portici di dieci arcate decorati da statue allegoriche e bassorilievi
commemorativi delle vittorie e dei fasti napoleonici. Ma mancarono sia i
fondi che il tempo, così la piazza rimase con un contorno di alberi e al
centro il vecchio pozzo del convento. Il 13 ottobre 1813 il governo
austriaco riprese possesso di Trieste e prontamente il Comune cambiò
nome alla piazza che divenne Piazza Lipsia, in memoria della "Vittoria
delle Nazioni" ottenuta dagli eserciti confederati sulle truppe di
Napoleone (ottobre 1813).
Nel 1865 il Comune decise di
trasformare l'area in parco pubblico; la fece recintare con muretti e
balaustre di ferro, la ornò di una elegante vasca con rocce, piante e
zampilli d'acqua e piantò parecchi alberi ornamentali, molti dei quali,
più che centenari, prosperano ancora.
La chiesa dei Francescani, oggi
Beata Vergine del Soccorso, rimase così l'unica di tutto il quartiere
aperta al culto. Per qualche tempo fu filiale della parrocchia di Santa Maria Maggiore e divenne parrocchia essa stessa il 1° gennaio 1847, con
la cura di 4000 anime che, prima della fine dell'Ottocento, erano già
più che raddoppiate. Aveva allora cinque altari: il Maggiore e quelli
della Beata Vergine, del Crocifìsso, degli Angeli Custodi e di Sant'Antonio
Taumaturgo. L'organo era ancora quello antico, donato dalla famiglia
Petazzi, il campanile aveva solo tre campane, ma nel 1850 il parroco
Antonio Hrovatin ne fece fondere una quarta.
La chiesa fu la prima a Trieste
nella quale si praticò l'esercizio della Via Crucis ed ebbe molti
benefattori insigni fra i quali Don Carlos e dona Maria Teresa, conti de
Molina infanti di Spagna, esuli a Trieste, che introdussero la pratica
del mese Mariano e l'arciduca Ferdinando Massimiliano, fratello
dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe, che abitò per parecchi
anni nella villa Lazarovich (in via Tigor). Il quartiere dei Santi
Martiri si stava rapidamente trasformando: sul colle le vigne e le
casette rurali lasciavano il posto a ville e residenze di lusso, le
antiche stradette tortuose venivano allargate e raddrizzate;
l'interramento delle rive spostava la linea di costa da via Diaz verso il mare
guadagnando altri spazi alle costruzioni. La chiesa, al centro di questo
quartiere ricco e in espansione, ebbe un numero sempre crescente di
fedeli e godette di molti privilegi essendo di patronato imperiale. Fu
così che si rese necessario un nuovo ampliamento affidato, nel 1863,
all'architetto Giuseppe de Bernardi. Dai progetti risulta che la
facciata settecentesca e i muri perimetrali non furono toccati e che gli
interventi interessarono soltanto la zona absidale. Lo spazio per i
fedeli fu aumentato invadendo il presbiterio il quale a sua volta andò
ad occupare la vecchia sagrestia e la base del campanile; fu perciò
necessario costruire nuovi ambienti per la sagrestia, abbattere il
campanile sul lato della piazza e costruirne uno nuovo, quello di gusto
veneto, alto 28 metri che si erge ora sul fianco sinistro dell'edificio.
Il vescovo monsignor Bartolomeo Legat diede la benedizione alla chiesa
rinnovata il 16 luglio 1866, festa della Madonna del Carmelo.
Recentemente la chiesa della Beata Vergine del Soccorso è stata oggetto
di restauri pazienti e accurati, grazie all'interessamento iniziale del
parroco don Vittorio Cian (tetto ed esterni), seguito da don Luigi
Lenardon (impianti luce e amplificatori), per terminare quindi con i
restauri dell'interno realizzati da don Carlo Gamberoni. I lavori sono
stati portati a termine anche grazie alle generose elargizioni dei
fedeli.
La chiesa della Beata Vergine del Soccorso, ora.
La facciata a capanna è elegante e lineare, ritmata da quattro
paraste che terminano sotto il timpano sottolineato da un imponente
cornicione; la interrompono tre porte, sovrastate da altrettanti
fìnestroni; sopra all'entrata centrale è posto il cartiglio con
l'epigrafe dedicatoria del 1774. Il fianco destro della chiesa, che un
tempo aderiva all'edificio conventuale, conserva ancora le porte
laterali, una sola della quali immette tuttora all'interno della chiesa.
Sul fianco sinistro si innalza l'ottocentesco campanile, la cui base
resta celata dai locali della sagrestia; poco più avanti sul muro di uno
scampolo di giardino, ultimo avanzo degli orti dei frati, è inserito un
fontanone pubblico un tempo alimentato dall'acquedotto teresiano di S.
Giovanni e oggi asciutto e in tristi condizioni di abbandono.
La pianta della chiesa, a navata unica, è leggermente prospettica; le
pareti longitudinali cioè convergono verso l'abside. Si tratta di un
espediente tecnico usato dagli architetti per produrre nell'osservatore
un'impressione di spazialità dell'ambiente diversa da quella reale,
creando un'illusione ottica di maggior profondità.
L'interno della chiesa, grazie ai recenti restauri, ha riacquistato la
luminosità e l'armonia di un tempo. Alte lesene in finto marmo giallo
venato di scuro, coronate da capitelli, scandiscono gli spazi delle
pareti e affiancano i nicchioni, ricavati nello spessore dei muri, che
contengono i sei altari laterali. I 14 rilievi della Via Crucis, in
terracotta, sono stati realizzati nel 1953 dall'artista triestino Carlo
Sbisà (1899 - 1964). Si ha notizia di una serie di quadri con le
stazioni della "via dolorosa" fatti eseguire a Venezia nel 1763, dei
quali però si è perduta ogni traccia.
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