“CJANT FOREST”
di Galliano Zof
Manzano, 21 aprile
2005-04-06
Note di Odorico Serena
La poesia è la più pura delle arti, perché è fatta solo di soffi
che fanno vibrare le corde vocali da cui hanno origine quei suoni
che danno vita alle parole: sono proprio queste che attestano ciò
che si forma, si modella e si organizza, come nel seno della
madre, nell’animo del poeta.
Inoltre la poesia è stata forse la prima delle arti,
perchè, essendo l’espressione umana che comunica emozioni e
sollecita la formazione di immagini che sono alla base dei miti,
delle leggende e dell’epopea di una gente, porta in superficie
quello che di più profondo matura nella parte nascosta del cuore
del suo Autore: per questa ragione è stata l’attività per
eccellenza che ha dato un’identità, un’unità di sentire e di
cultura, a questo o quel gruppo di persone che costituiscono la
famiglia umana e, quindi, ha contribuito a formare e a plasmare
l’anima dei popoli.
In sede filosofica e letteraria sono numerose le
concezioni che riguardano la poesia e la sua funzione.
C’è chi, ad esempio, ritiene che essa possa svolgere un
ruolo di stimolo in chi l’ascolta, sollecitando la sua
partecipazione emotiva, per cui coinciderebbe sostanzialmente con
l’empatia che si manifesta evocando emozioni, atteggiamenti,
immagini.
Altri, invece, mettono in luce il fatto che essa
sarebbe una forma tutta speciale di verità assoluta, una forma di
conoscenza che annoda il particolare e l’universale, accoglie del
pari il piacere e il dolore, innalza la visione delle parti al
tutto.
Diceva Heidegger che “la poesia non è un qualsiasi
semplice dire, ma è quello per il quale si trova inizialmente
rivelato tutto ciò che noi dibattiamo e trattiamo in seguito nel
linguaggio di tutti i giorni. Di conseguenza, la poesia non riceve
mai il linguaggio come materia da manipolare, e che gli sarebbe
presupposta, ma al contrario è la poesia che comincia a rendere
possibile il linguaggio. La poesia è il linguaggio primitivo di un
popolo, .. e, come linguaggio originario, è la verità stessa, vale
a dire la manifestazione o lo svelamento dell’Essere”.
Altri studiosi ritengono che la poesia sia un modo
privilegiato di espressione linguistica, che si distingue dalla
narrazione e dalla descrizione in quanto il poeta condensa ed
abbrevia, dando così alle parole, come sosteneva Dewey,
“un’energia di espansione che è quasi esplosiva”.
Ci sono inoltre pensatori e letterati che attestano che
la poesia rimanga perennemente indipendente da qualsivoglia
interesse o utilità: carattere questo che si trova compendiato
nell’espressione latina di “ars gratia artis”, l’arte per l’arte.
E l’arte avrebbe come suo unico fine la bellezza.
Ecco perchè spesso, se non sempre, la creatività
poetica coincide con la ricerca della perfezione formale.
Questo modo di intendere l’attività è confermata da Ungaretti, che
scriveva: “Sognavo una poesia dove la segretezza dell’animo..si
conciliasse ad un’estrema sapienza di discorso”.
Erza Pound ritiene, invece, che la poesia abbia il
compito di “mantenere efficiente il linguaggio”, o caricando le
parole di una qualche qualità musicale che condiziona il loro
significato (“Dolce e chiara è la notte/ e senza vento..”, cantava
Leopardi), o proiettando le immagini che le parole evocano sulla
fantasia visiva, o inserendo le parole in un ventaglio di giochi
linguistici ed espressivi.
La stessa parola “poesia” si richiama al verbo greco “ποιείν”, che
significa fare, produrre, creare.
Ma la poesia potrebbe assumere pure una funzione politica.
Lo ricordò, in un celebre discorso, John Kennedy, che si espresse
in questi termini: “Quando il potere spinge l’uomo all’arroganza,
la poesia gli ricorda i suoi limiti. Quando il potere restringe il
campo dei suoi interessi, la poesia gli ricorda la ricchezza e la
diversità della sua esistenza. Quando il potere corrompe, la
poesia purifica, perché l’arte afferma le fondamentali verità
umane che debbono servire da pietre di paragone del nostro
giudizio”.
Nella lunga storia dell’umanità la poesia avrebbe anche
assunto valore didascalico, come lo si può ravvisare ne “ Le opere
e i giorni” del greco Esiodo e nelle “Georgiche” del latino
Virgilio.
Talora il poeta può essere il vate del proprio tempo,
anticipando, o i progressi e le speranze di un popolo, come lo
furono i profeti per Israele, o preconizzando involuzioni e
sciagure, come lo fu Cassandra nel Poema omerico.
Certo, sarebbe interessante discutere e documentare ognuna di
queste interpretazioni, le cui citazioni hanno, in questa sede,
soltanto lo scopo di permettere, pur attraverso tali brevi
accenni, di accostarsi ad un testo breve e complesso come il
“Cjant forest” di Galliano Zof e di comprendere la complessità del
suo mondo artistico.
Forse è appena il caso di ricordare che esistono tre generi di
linguaggio.
C’è quello comune (questo tavolo è grande), che è
superficiale e impreciso, c’è quello scientifico (il sole entra in
Ariete il 20 marzo, alle ore 18 e trenta e ventun secondi), che dà
le esatte dimensioni del reale, e c’è, infine, quello poetico, che
è polisenso.
Le parole che usa ogni poeta -che sia tale- sono cariche del
potenziale che è proprio di tutta la loro storia.
Le parole non sono mai neutrali, perché sono dotate di senso e
perchè hanno in se stesse una pluralità di voci, una polifonia,
che non sempre è agevole comprendere in tutto il suo intreccio
espressivo.
Questo vuol dire che, leggendo anche un solo verso, è
necessario saper cogliere la complessità del mondo che vi sta
dietro ed è anche un sollecito a non mai arrestarsi alla prima
lettura, con la quale spesso è difficile ascoltare quella
pluralità di voci di cui si è detto.
“In ogni accento di poeta, in ogni creatura della
sua fantasia - scriveva Benedetto Croce -c’è tutto l’umano
destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le
grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che
diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioendo”.
Pensiamo quale mondo spirituale si apre con le prime
parole del Vangelo di Giovanni, che, pur essendo un testo
religioso, ha il fascino della poesia: “In principio c’era il
“Λóγος””, c’era la Parola, il che vuol dire che la parola è il
fondamento stesso del nostro essere persone.
Dante definì questo prologo come “l’alto preconio che
grida l’arcano” (l’annuncio solenne che proclama la realtà
nascosta e misteriosa).
Certo, la comunicazione non è solo propria del
mondo umano: le piante comunicano con i pollini, i colori e le
essenze dei fiori, gli animali con i versi, il canto, la mimica, i
ferormoni, ma, per la persona umana, la gamma dei gesti, il
contatto visivo, le posture, la mimica, il sorriso non esauriscono
l’urgenza fondamentale della comunicazione, ma la precedono e
l’accompagnano, perché, rispetto agli altri esseri viventi, ella
possiede il dono della parola.
Allora, se è vero che l’uomo è simile a Dio, lo è
in virtù della parola, che è la scintilla divina che brilla in
ognuno di noi.
Si accennava in precedenza al fatto che ci sarebbero
diversi generi di linguaggio - quello comune, quello scientifico e
quello poetico – che, a loro volta, vengono utilizzati in ambienti
differenti e diventano specifici per le esigenze proprie di ognuno
di essi: la casa, la scuola, la Chiesa, i laboratori di ricerca,
gli ospedali, la piazza, la televisione, il cinema, lo stadio,
l’ufficio.
Grande e ineludibile compito delle istituzioni
educative è anche quello di insegnare a distinguere i diversi
generi di linguaggio e, in questo nostro tempo, anche di
condannare l’imbarbarimento che, come una deriva, da qualche
decennio si sta riversando sulla società tutta, soprattutto su
quella giovanile, da quando cioè i mezzi di diffusione di massa,
quali la televisione, le radio, i giornali, hanno adottato le
volgarità e le ingiurie, come se fossero un atto di libertà e una
conquista civile.
E’ ormai un imperativo, soprattutto di un’etica civile,
far capire ai giovani che una parola non vale l’altra e che dietro
all’uso di questo o di quel linguaggio ai aprono mondi diversi.
Riflettere sulla parola significa dunque insegnare a pensare e a
distinguere la chiacchiera, la banalità, l’illusione, la bugia, se
non la volgarità, dalla luminosità del significato pieno, della
ricerca del vero, del rispetto e della fruizione del Λóγος.
Alla luce di questi presupposti si può allora passare
ad esaminare, pur nelle linee essenziali, la lunga ricerca poetica
di Galliano Zof.
Nato e residente a Santa Maria La Longa, (è proprio in
questo Paese della Bassa friulana che Ungaretti scrisse il famoso
verso: “M’illumino d’immenso”), egli possiede una solida cultura
letteraria e filosofica con interessi in psicologia e nella
scienza grafologica.
E’ stato per diversi anni docente e quindi Preside
nelle Scuole Medie della provincia di Udine.
Il suo essere poeta - soprattutto in marilenghe, - può
essere considerato come una militanza costante al servizio alla
Parola nel significato sopra descritto, perché animato
dall’intento di sviluppare e di far vivere nei suoi versi l’anima,
la storia e il sentire della gente della piccola e grande Patria,
che è stata ed è il Friuli.
Egli muove i primi passi, giovanissimo.
Nel lontano 1966, con Angeli, Vale e Venuti scrive “Un
carantan di puisie” (Un soldo di poesia), in cui manifestava sin
d’allora una sua sensibilità tutta particolare per il mondo
contadino della Bassa friulana, che egli ben conosceva, essendo
egli figlio di mezzadri.
Per esperienza diretta gli erano note le fatiche che
esso comportava, le condizioni di marginalità in cui si trovava,
ma anche la fede profonda che lo animava, il suo indiscusso amore
verso la terra, il senso profondo di appartenenza che legava tra
di loro i componenti di una stessa famiglia e la solidarietà che
si stabiliva tra le genti del borgo.
L’anno successivo, assieme a Domenico Zannier, il
“Mistral della Patria friulana” e a Mario Argante, costituiva il
movimento letterario della Cjarande (la Siepe), che pubblicò
un’antologia, in forma di manifesto, che comprendeva i
componimenti di ventidue autori.
Nel 1968 usciva “Lidrîs di tuessin” (Radici di veleno),
nel 1969 “Pan cence levan” (Pane senza lievito) e nel 1971 “Poesie
scelte friulane”. Poi una pausa di qualche anno.
Seguono due raccolte poetiche: “De bande dei siôrs”(Dalla
parte dei padroni) (1976), con presentazione e traduzione in
italiano di Domenico Zannier e “Contadinance” (Contadinanza quale
classe dei lavoratori della terra) (1977), con introduzione di
Riccardo Chiesa.
Si apriva per lui un’intensa stagione di poesia sociale
che denunciava condizioni di povertà, fatiche, patimenti comuni,
ma che pure svelava la profondità di sentimenti della gente della
terra e i valori profondamente umani radicati nella fede
cristiana.
Erano gli anni dell’immediato dopo terremoto che, dopo
aver devastato una parte considerevole del Friuli, ne metteva in
pericolo la stessa identità.
“La poetica di Zof -scrive Zannier nella prefazione a
“De bande dei siôrs”- è segnata da un realismo terragno che si
aggancia alle passioni primigenie dell’uomo e che riesce quasi
sempre a entrare in zone di sublimazione. Da qui urti e improvvise
dolcezze, ferite nella carne e rasserenanti idealità”.
In questo lavoro compare “tutto un mondo sociale che, dopo secoli
di sofferenza, comincia ad emergere nella sua identità e a
prendere il posto che gli spetta”.
Nel successivo “Contadinance” Zof tratteggia -scrive Riccardo
Chiesa- “un quadro soprattutto critico, denunciando gli effetti
negativi dell’emigrazione, i condizionamenti della cultura
padronale e “oppressiva” ” , ma anche mette in luce “la
spiritualità esaltante” del Cristo, “protettore e consolatore,
nonché modello cui tendere”.
Indubbiamente il poeta è consapevole che il mondo
contadino da lui rievocato sta profondamente cambiando sotto
l’impulso di una nuova stagione sociale e sa che le generazioni
contemporanee sono in condizioni di perenne agitazione, né paiono
accettare i vincoli della precedente inferiorità.
Sembra così di avvertire anche nel mondo contadino il
vocio alto e confuso del Sessantotto.
Accanto ai motivi accennati che gridano contro le
ingiustizie di secoli, reclamano il riscatto sociale della gente
del mondo contadino e rivendicano i diritti degli umili ( persino
al cane del padrone poteva permettersi di gironzolare nelle braide
e veniva salutato in lingua italiana dai fittavoli), Zof intreccia
altre importanti tematiche che ormai fanno parte integrante del
suo mondo poetico: la nostalgia per l’infanzia anche se povera,
l’affetto per il “borgo natio”, la rievocazione di figure che
hanno lasciato per sempre questo mondo, il dramma dell’emigrazione
in Paesi lontani con gli inevitabili disagi e pericoli, l’incanto
che nasce nel suo animo di fronte alla bellezza femminile e alla
gioia della donna di essere madre, specchio umano dell’ “alma
mater”, della terra che nutre.
Sempre nel primo post-terremoto, con Zannier, pubblica
un libretto di contributi di vario genere (lingua, filologia,
letteratura, arte, politica..) scritti perché “Il Friuli è una
patria che non deve morire”, con l’intento di richiamare la gente
di questa terra al senso della propria identità e dei propri
valori millenari che non debbono andare perduti.
Nel 1981 Zof sente il bisogno di compiere una prima
scelta di tutta la sua precedente produzione poetica: esce così
“Flôrs” (Fiori), nel quale si coglie bene la “molteplicità di
sentimenti” e “la schiettezza persino ruvida con cui essi vengono
rappresentati”, - come scrive D’Aronco nella presentazione -, per
cui egli è “ora aggressivo, ora scettico, ora contestatore, ora
rassegnato”, vigoroso e maschio quando condanna, dolce, come un
accenno di carezza, quando si rivolge alla donna.
Sempre nel 1981 egli si cimenta con il linguaggio e la
rappresentazione teatrale con “Lune in cercli” (La luna
nell’alone), nella quale narra vicende del 1653, che si svolgono
nella “vicinie di Ravoncli”, nome simbolico di una località della
Bassa.
E’ un affresco di vita politica, sociale, economica e
religiosa del Seicento friulano.
L’animano contadini in difficoltà per la siccità incombente che
compromette il raccolti, il conte che è padrone non solo delle
terre, ma anche di coloro che le lavorano, le figure
caratteristiche di Benandanti e streghe, l’amore sorgente tra due
giovani.
Tutto si svolge tra i riti delle Rogazioni e i processi
dell’Inquisizione.
Il 1984 vede la luce “Spire e muse” (in italiano: testa
e croce), titolo che allude alla doppia faccia della realtà - in
analogia a quanto viene impresso sulle monete - che si può
cogliere già nei seguenti versi con cui inizia la raccolta: (..al
mi contave il von/…lumant/ oltri il cunfín des formis ch’a incéin/
la cìfare…) (mi raccontava il nonno cercando di cogliere la
pienezza del reale oltre il confine fenomenico che ne abbaglia
l’essenza).
Del 1988 è “Timp cence timp” ( Tempo senza tempo) che
raccoglie le liriche scritte tra il 1985 e il 1987.
Sono poesie al di fuori del tempo e dello spazio, con
valori di universalità, perché da sempre sboccia in primavera il
canto d’amore, che diventa poi maturo, ma del quale rimangono
perenni nella memoria le emozioni forti dell’inizio.
E’ di ogni tempo la presenza dell’elemento religioso
nelle genti: straordinari sono i versi con cui il poeta delinea il
ritratto della Madre del Cristo dal momento dell’Annunciazione al
dileggio del Golgota; oppure sono di ogni tempo le tante
schiavitù, di cui l’essere umano può diventare vittima, la droga,
il tradimento, il male.
Nel 1995 esce “Planta salvadia” (Pianta selvatica), in
friulano, italiano e rumeno.
Si tratta di una piccola antologia della sua precedente
produzione in cui si trovano accomunati i motivi più
caratteristici della sua musa: i ritratti del padre, dal volto
color della terra e della madre, come una bianca muraglia di orto,
le cui mani, intrecciate ad arco, sono state per il poeta un gioco
d’ altalena; la cerimonia funebre in memoria della morte della
nonna Adele portata a spalle fino al cimitero; i ricordi della
fanciullezza; la denuncia contro i padroni di un tempo; l’incanto
della bocca rosata della donna, cerchio di luna, il suo bacio che
aveva il profumo della viola e lui, il poeta, cresciuto come
pianta selvatica.
Nel 2001, Zof pubblica un’altra raccolta di liriche
ladine: “Salmodiis”(Salmodie) che si apre con l’elogio alla lingua
friulana, quella lingua che il potere ha rifiutato (era da poco
stata approvata la legge di tutela delle minoranze linguistiche
storiche), i signori e la borghesia hanno maltrattato, ma che è
stata sempre amata dalle gente.
In forma calda, sintetica e profonda emergono dalla
memoria persone, stagioni, luoghi, mentre il poeta è perfettamente
cosciente dello scorrere del tempo, egli figlio del sangue e di
una storia, col desiderio però di andare oltre il sangue e la
storia e suggere il tempo infinito.
Due liriche di quest’opera possono considerarsi
paradigmatiche degli stati d’animo del momento: l’una è il
ritratto della divina Ancella, roccia di monte e splendore di
stelle, l’altra il ricordo struggente del Nani, un mulo compagno
di lavoro ed evocatore di tanti episodi della vita dei campi e
della fanciullezza del poeta.
L’ultimo canto è del novembre del 2003, ma solo ora
viene presentato.
Di questo suo recente lavoro hanno già scritto Lucio De
Clara su “La vita cattolica” del maggio 2004 e Giannino Angeli
sulla rivista culturale “Sot la nape” della Società filologica
friulana nel numero di ottobre - dicembre 2004.
Il titolo Cjant forest” (Canto straniero), con cui Zof ha chiamato
questa raccolta, esige un chiarimento e un’interpretazione che
possono avere luogo soprattutto ricordando che la poesia è
polisenso.
Di fatto, il poeta, che per tutta la vita voluto
celebrare il mondo contadino, la gente dei campi e la
straordinaria sua epopea umile, nascosta, ricca di sentire e di
valori, mondo troppo spesso dimenticato dalla cultura e dalla
politica del dopoguerra, considera il suo canto “forest”, (altro,
estraneo), in quanto vive ormai in una società che appare sempre
più senza memoria.
Sente estranee le scelte della gente, che è per lo più
orientata ad individuare per i propri figli una preparazione
culturale e professionale che sembra voler dimenticare le proprie
radici e la propria storia, orientata com’è verso modelli di
efficientismo e di globalizzazione, in cui tutto si uniforma e nel
quale, di conseguenza, si perdono le differenze.
Estranea sembra essere anche la marilenghe e, con essa,
i valori che l’hanno accompagnata.
Profondamente diverso e lontano è per lui il linguaggio che usano
troppo frequentemente i media pieno di volgarità, di violenza e di
ingiurie.
Si sente poi distante da certi modelli di vita
marginale in cui sono confinati quelli che considerano la vita un
vuoto da riempire con il nulla.
Si considera infine straniero di fronte all’incalzante
mondo dei media che trasformano tutto in immagine, mentre la
parola, o assume una funzione secondaria, o è del tutto abolita.
Ma forse considera estranea pure l’Europa che si sta
formando, che pare orientata a privilegiare la politica economica
e monetaria, ma non i valori fondamentali che l’avevano
accompagnata ed animata fin da quando essa stava nascendo come
idea di un rinnovato universalismo. Eppure, il canto del poeta
deve poter trovare ancora momenti di ascolto.
La prima pagina riporta una poesia di Ignazio Buttitta,
poeta italico-mediterraneo, che considera ancora libero un popolo
messo a catena e messo al silenzio, che lo ritiene ancora vitale
pur nella miseria e nella disoccupazione, ma che invece diventa
povero, schiavo e servo per sempre se gli sottraggono e gli
spengono la lingua usata dai padri.
La più recente poesia di Zof si apre a temi nuovi e richiama altri
che la sua cetra ha onorato: la difesa della lingua materna e dei
valori di sempre, la rappresentazione del mondo contadino, il
senso profondo degli affetti.
Il testo si compone di sei ballate, che sono una denuncia dei vizi
di questa nostra società, e di diciannove poesie tutte composte
con uno stile sobrio, intenso, fatto di poche pennellate, ma
utilizzando parole ricche di polisenso.
Nella ballate il poeta parla in prima persona, come se egli
stesso, vittima innocente come un profeta o un povero cristo, si
fosse addossato sulle sue spalle le scorrettezze comportamentali,
più o meno significative, ma comunque presenti, e le abiezioni
forti del nostro tempo: schiavo del possedere, soggiogato dalla
gola, assoggettato all’alcool, dipendente dalla droga, asservito
al nulla.
Ogni ballata si chiude con gli stessi versi: “Voi che
siete ancora saggi, lasciate i vostri lavori di ogni giorno e
liberatemi da questa oppressione”.
Seguono quindi alcune pagine liriche di grande
intensità e profondo significato.
In “Sflandôr”(Spendore) si adombra il mistero
della vita, che è donata, che va vissuta nella pienezza e che va
restituita intatta quando la sera – la tarda età - si tingerà di
macchie di ruggine di un’esistenza ormai consumata.
In “Cuotidianitât”(Quotidianità) il poeta ci presenta l’immagine
di una chioccia che accompagna i suoi pulcini a scoprire il mondo
al di là del nido e le fonti del loro futuro sostentamento: ma
essi, uguali nel diritto alla vita, si azzuffano finchè qualcuno,
colpito dal becco dei fratelli, muore vinto e senza piume: simbolo
dunque di un’umanità che non ha ancora scoperto l’altro.
Quindi in “Femine”(Donna) delinea la figura di Romilda,
una lavoratrice che ha passato la vita tra l’orto e il mercato di
Palmanova, per allevare con dignità i figli, nel cui volto
brillano ancora gli occhi verdi, ma le cui ali sono ormai spente.
Il tema della notte ha ispirato poeti di ogni
tempo: è il momento de “Pâs”, quando la notte arriva sul paese con
passo felpato e accarezza i fiori, le lumache, le rane, i ricci, i
formicai della muraglia e i pipistrelli a caccia di moscerini. Ma
la notte fugge e, forse, con lei la pace.
Quindi l’immagine suggestiva di Zof bambino quando
faceva le bolle di sapone che subito poi scoppiavano, lasciando
sulla terra grige lacrime: le bolle, come l’aquilone del Pascoli,
sono le illusioni, che durano un attimo e poi si spengono nel
plumbeo del disincanto.
In “Leam” (Legame) l’animo dell’autore, sul far della
sera, quando tutto diventa ombra e i pensieri sono inclini
all’umiltà, si pone alla ricerca di Dio in ogni aspetto reale: e
Dio gli sembra vicino e lontano nella pienezza che non ha confini.
Un accenno va poi riservato a “Sûrs” (Sorelle), che non
sono sette belle giovani donne, ma altrettante mucche che per il
mondo contadino erano autentiche compagne nella fatiche e fonte
indispensabile di nutrimento.
Ognuna di loro, però, si distingueva per un suo preciso
carattere: era vivace o calma, spavalda o mite, collaborativa o
con segni di indipendenza.
Tutte erano vissute nello stesso luogo e sotto lo
stesso cielo: la Viole, la Galande, la Blancje, la Rosse, la
Stele, la Parigine…nomi che le personalizzavano, ma che ormai
sembrano dissolti nei ritmi nuovi di un’agricoltura svanita nel
tempo.
E, infine, l’ultima lirica che chiude la raccolta: “Animis”(Anime),
laddove il poeta rivede la gente dei campi, che, madida di sudore
sotto un sole accecante, falciava il frumento (non c’erano allora
le macchine di oggi), lo raccoglieva in covoni e poi provvedeva a
separare i chicchi dalla paglia in un turbinio di polvere e,
nonostante tutto, avendo ancora la forza di cantare.
Sullo sfondo la figura del padrone, che osservava tutto
il processo lavorativo vestito di bianco.
Ancora una volta la parola “bianco”, usata da Zof, deve
essere letta nei diversi significati che poeticamente la
connotano: il vestito bianco stabilisce, prima di tutto, una
gerarchia, perché distingue chi doveva operare con fatica da chi
lo controllava e poi del lavoro altrui godeva i frutti; rammenta
che, per ragioni di fatto, la servitù della gleba era ancora
vigente alcuni decenni fa nel Friuli degli “Ultimi”, come padre
Turoldo aveva intitolato un suo celebre film, nonostante l’avvento
della democrazia; il discorso poi assume un valore universale
quando il pensiero va ai tanti popoli di questa terra che vivono
nella povertà, operano con fatica e i frutti del loro lavoro
vengono giornalmente condizionati da oscuri e potenti
intermediari, che scambiano i loro prodotti nel gioco delle borse
mondiali.
Galliano Zof, confidandosi con gli amici dopo la
pubblicazione di “Cjant forest”, ha espresso l’intenzione di
deporre la cetra.
L’augurio caloroso che gli si può rivolgere è che
continui, invece, a rendere nelle parole polisenso il suo ricco
mondo interiore, che aiuti la gente di questa Terra a trovare e a
riconoscere le proprie radici e la incoraggi a coltivare la
bellezza e l’espressività della marilenghe, perché proprio per
mezzo di lei il nostro Friuli continui a vivere conservando le sue
millenarie differenze e specificità. Odorico Serena |