.La
fiêste del purcît
(10 Gennaio 2000)
Su sollecitazione di Walter Cibischino, residente in Canada, mi sono attivato per raccogliere informazioni sulla lavorazione delle carni di maiale e sulle ricette per la preparazione di salàm, musèt, lujania, marcundela ecc … con il sapore del prodotto friulano. Fortuna ha voluto che, uno dei pochi purcitârs (norcini) ancora "in servizio" a Orsaria, Mario Baschino, proprio oggi stava lavorando … il suo maiale …! Quando ho spiegato a chi erano dirette le informazioni, Mario ha prontamente accettato di rendere pubblici i "segreti" di un mestiere ormai in via di estinzione, e con l'aiuto del figlio Arnaldo, ha promesso di preparare un dettagliato resoconto sul "suo" sistema di … purcità …!
(Ricordo di aver assaggiato il salame fatto da Mario e posso assicurare che era proprio … salam furlan…!)
Rendendomi conto che non sono fotogenico, avrei preferito non comparire nelle foto scattate sulla "scena del delitto", ma ho voluto dare la prova che non si tratta di foto di repertorio, ma scattate proprio oggi 8 Gennaio 2000.
Io e Mario.
LA FIESTA DEL PURCIT
Sebbene la mia fosse una
famiglia di sottàns, anche noi avevamo il cjôt, per allevare il
nostro bel purcitût.
Per quel che
ricordo, sottàns, era un termine per distinguere una famiglia povera da
una famiglia contadina, che non si poteva certamente considerare bacàns,
cioè una famiglia ricca specialmente lavorando la terra ghiaiosa di Leproso, ma
aveva sempre una possibilità in più per conciliare il pranzo con la cena.
Un maiale allevato
per un periodo che incrociava dûs lunês d'avòst e quindi per più di
un anno, aveva la massima resa sia in quantità di grasso che di carne, che
poteva arrivare e superare i tre quintali.
Non ricordo in che
mese i miei si procuravano il maialino da allevare, ma facevano i loro calcoli
per poter giungere alle soglie dell'inverno con una bella bestia di 150-180
chili, una misura giusta per la nostra famigliola di 6, poi 5 e poi 4 persone.
Ricordo che al momento giusto mia madre andava nelle varie famiglie di contadini
di Leproso o dei paesi vicini e da una covata di maialini sceglieva uno che
avesse il muso corto e le orecchie lunghe, anche se piccolo e denutrito. Secondo
lei, quel tipo di maiale avrebbe prodotto una abbondante provvista di grasso e
di un argjèl (lardo) alto più di quattro dita ...! Grande era la
soddisfazione di mia madre nel vedere il maialino "pulire"
regolarmente l'abbeveratoio ed il suo peso aumentare a vista d'occhio, e grande
sconforto quando il bevaròn rimaneva nel laip, perché la povera
bestiola era "insaccata" per aver ingerito troppe verdure fresche.
La mattina del giorno fatidico,
sebbene sempre molto mattiniero, mio padre si alzava un'ora prima per accendere
il fuoco sotto la grossa cjalderia colma d'acqua. Mi sembra ancora di
ascoltare il crepitìo delle fascine di legna che ardevano, e di vedere i bagliori
che penetravano attraverso le fessure della vecchia porta della camera da letto
che si affacciava direttamente sul cortile, mentre io e mia madre stavamo ancora
nel calduccio sotto le coperte. Appena cricât dì, ed il chiarore del
sole che si scorgeva dietro la collina di Badia incominciava ad illuminare la
scena dove si sarebbe svolto il "rito sacrificale", puntuale a piedi
arrivava Bepo Ferighîn, (Giuseppe Calligaris, che qualche anno più tardi
sarebbe emigrato in Argentina), con una grossa sporta piena di attrezzi che
penzolava da una spalla, legata alla pesante macchina di purcità, che gli
penzolava dietro alla schiena. A questo punto, io inforcavo la bicicletta e
scappavo da mia sorella che abitava all'inizio del paese … per non vedere e
soprattutto non sentire …
Quando
dopo una mezz'ora facevo ritorno a casa, la povera bestia era appoggiata su dûs
balês di stranc, sotto una nuvola di vapore provocata dall'acqua bollente
versata sulla sua pelle, operazione necessaria per permettere una facile
raschiatura del pelo. Solo quando il maiale veniva trasportato all'interno
dell'abitazione per proseguire i lavori, io provvedevo a raccogliere il pelo del
maiale che poi avrei venduto al pezotâr. I miei familiari non contavano
troppo sul mio aiuto ma io cercavo di tardare il mio rientro in casa perché,
schizzinoso com'ero, non volevo correre il rischio di ricevere ordini che mi
costringessero a mettere in contatto le mie mani con il materiale in
lavorazione. Non ero altrettanto schizzinoso però, quando a mezzogiorno mi
mettevano davanti un buon piatto di minestra di brodo, ed un bel pezzo d'osso
di maiale, dal quale spiluccavo la saporitissima carne che ancora vi era
appiccicata.
La lavorazione
proseguiva fino a tarda sera, un po’ perché tutte le operazioni erano
eseguite con la macchina di purcità azionata a manovella, ma anche a
causa della veloce diminuzione del livello del bottiglione di nero che era
sempre a portata di mano dei lavoranti … All'ora di cena nessuno aveva fame,
tuttavia il purcitâr non voleva perdere l'occasione per sfruttare
quell'ultima opportunità, e con grande sforzo, riusciva a trangugiare due o tre
uova condite con il burro ed a tracannare gli ultimi due o tre bicchierozzi di
vino. Dopo il pagamento della tariffa in vigore all'epoca, più la solita lujania
omaggio, il purcitâr caricava in spalla la sporta di attrezzi e si
incamminava verso casa, percorrendo la stessa strada dell'andata ma di qualche
metro più lunga … perché percorsa a zig-zag.
Naturalmente i
lavori non finivano lì … oltre a portare sul cjast gli insaccati
più importanti come salams, socòi, sopresîs e prosciuts,
affinché si asciugassero al punto giusto, prima di passare in cantina, si
eseguiva un'operazione molto importante che consisteva nel far bollire il grasso
macinato, risultante da tutte la parti grasse non utilizzabili per la
costruzione del rodul di argjel. Dopo la cottura, il saîn veniva
versato in contenitori di vetro e serviva per condire diverse pietanze durante
tutto l'anno. Un classico contenitore per il saîn che non costava
niente, era la bufula de aga. Essa veniva pulita, rivoltata e soffiata con
gran forza, per aumentarne al massimo la capacità. Ai giorni nostri non
capisco che fine faccia il saîn, visto che la parte solida di quella
cottura, lis cicinis o frizis, ogni tanto si trovano in vendita
nei negozi.
Si può solo immaginare la
tragedia per una povera famiglia come la nostra, quando il veterinario
diagnosticò la malattia di un nostro maiale di 150 chili … mâl russîn
(non conosco il nome in italiano). Il macelâr che venne a prelevare
il maiale durante la notte, ci consolò con una misera cifra … ma era
sempre meglio che doverlo sotterrare …!
Una sgradita
sorpresa l'abbiamo avuta un anno, quando subito dopo aver messo in pentola un
pezzo di carne di maiale, uno strano e sgradevole odore si è diffuso in tutta
la casa … il maiale non era castrato … ovverosia … era stato castrato a
metà …! La cosa strana era che io non notavo niente d'insolito, sebbene
tutti storcessero il naso … La lavorazione delle carni è proseguita malgrado
tutto, ma ricordo che solo mio padre riusciva ad affrontare i prodotti di quella
lavorazione.
Questi sono i miei lontani ricordi di quando a casa mia si copàva il purcit, una bella giornata sicuramente, ma non paragonabile a quella che doveva essere per la generazione precedente alla nostra. Anche se la mia era una famiglia di sotàns, un panin cul argjel o un ûf sbatût … a me non è mai mancato.
(Aldo Taboga, 11 Gennaio 2000 - I nomi in neretto sono scritti in … friulano di Leproso)