storiutis
Dal libro di Anellina Colussi
"Dis'ciapinela tai savours
di un timp pierdut"
Anellina
Colussi è nata il 24 novembre 1950 a Casarsa della Delizia, dove tuttora
risiede. Autodidatta, scrive fin da giovane per passione, poesie,
racconti e aneddoti di vita paesana, nella parlata friulana casarsese.
Ha ripreso l'attività poetica dopo un lungo periodo dedicato agli
impegni famigliari. Nel 1998, partecipando al premio "Arco alpino"
a Torino, ha vinto il 4° premio, segnalazione con menzione. Le poesie
del concorso rappresentavano i vari idiomi dell'Italia settentrionale.
Le sue liriche sono state inserite nello "Strolic" della
Società Filologica Friulana di Udine. |
La “Via
Crussis” dal Viners Sant
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La Via Crucis del Venerdì Santo La giornata è grigia ed il cielo sembra quasi “imbronciato”: è Venerdì Santo! Anche le campane dei “gemelli”, i due campanili di Casarsa, non se la sentono di suonare. Riposano come per accumulare forza, che sprigioneranno il giorno della Santa Pasqua. Dopo cena, quando si esce di casa per recarsi alla funzione della “Via Crucis”, un vento freddo ci schiaffeggia il viso. Penso siano i rimasugli, ormai, del lungo inverno. Sollevo il bavero del cappotto, incamminandomi verso la chiesa. Due donne con il fazzoletto legato sotto il mento, camminano a braccetto, confidandosi gli ultimi pettegolezzi. Un uomo, uscendo da un portone in ciabatte, tiene una mano in tasca e con l’altra si aggiusta il cappello in testa. Lo rincorre un piccolo cane bastardino, che l’uomo, accortosi di avere dietro, respinge con un calcio, dicendo: –“Vai dentro, svelto!”– il cucciolo guaendo, fa dietrofront e, con la coda fra le zampe, se la da a gambe. Giunta un po’ in ritardo, preso atto che la funzione fosse già iniziata, rimango in fondo alla chiesa, per non disturbare. Le luci sono basse per far in modo che l’atmosfera sia più mesta. L’inginocchiarsi e l’alzarsi di continuo ad ogni stazione della “Via Crucis” è come una penitenza, soprattutto per le ginocchia, intirizzite dal freddo (la chiesa in quei anni non era riscaldata). «Miserere nostri domine, miserere nostri», canta con voce possente il parroco, mentre i chierichetti portano avanti l’inginocchiatoio. Un uomo, sedutomi accanto, non sapendo il latino, mentre canta storpia a tal punto le parole da mettersi le mani nei capelli. Il verso «Santa madre, deh voi fate che le piaghe del Signore….» Diventa: «...madre, deh voi fate che le braghe del Signore…» Con fatica cerco di darmi un contegno, ma riesco proprio a trattenermi dal ridere, anche se cerco di nasconderlo. Un bambino davanti a me, non riesce a stare fermo. All’improvviso la nonna, che gli siede vicino, gli molla uno scappellotto tranquillizzandolo in batter d’occhio, come il dissolversi del cigolio di una carriola appena unta d’olio. Terminate le stazioni della “Via Crucis”, il parroco impartisce la benedizione. Meno male che la giornata odierna è giunta al termine, non sentire più il dolce suono della campane mette malinconia. Da domani sera però sarà tutto come prima. Uscendo di chiesa, la gente a poco a poco si disperde, lasciando quel luogo sacro spoglio e solitario. |
Il
scloput dal barba Daneil
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Il piccolo fucile dello zio Daniele Un giorno mio padre, dopo aver caricato me e mio fratello sul ferro della bicicletta ci ha portati a trovare lo zio Daniele. Non era proprio nostro zio però, ma noi per rispetto lo chiamavamo così. Giunti nel cortile di casa sua, abbiamo proseguito dirigendoci verso la stanzina dove egli, a tempo perso, faceva dei piccoli lavori. Mentre il papà si intratteneva con lo zio, noi due curiosavamo toccando ogni cosa. Il tavolo da lavoro era pieno di arnesi e tutt’intorno alle pareti della stanza, erano appesi dei pezzi di ferro, legni incavati per gli zoccoli, imbuti, manici per i martelli, lattine contenti diverse misure di chiodi e infine sopra un grosso ceppo era appoggiata un’incudine. In un angolo si trovava un sacco contenente della segatura, che lo zio Daniele usava per assorbire l’olio in eccesso, caduto sul pavimento, quando oliava gli arnesi da lavoro. La stanza era piuttosto buia (almeno a me dava questa impressione), perciò per vederci meglio, lo zio teneva sempre accesa una lampadina diventata opaca a causa della polvere, che pendeva dal soffitto e sopra di essa era sistemato un piatto di smalto bianco, un po’ rovinato. –“Bambini, funziona la piccola fionda che vi ho fatto?”– ci chiese lo zio. –“Si possiamo lanciare i sassi molto lontano.”– La fionda era stata creata con un pezzo di legno sagomato a forma di forcella: ai due lati era legato molto stretto un pezzo di camera d’aria di una vecchia ruota di bicicletta, al centro della quale era legata una toppa di cuoio che fungeva da appoggio per lanciare i sassi. Spesso noi bambini gareggiavamo sfidandoci a lanciarli il più lontano possibile. –“Zio Daniele, hai finito di costruirci il fucile?”– gli chiedemmo ansiosi di conoscere la sua risposta. I nostri occhi luccicavano, mentre stavamo con il naso all’insù, ci ha risposto: –“Serpente ladro” (era una sua tipica esclamazione), mi dispiace bambini, non ho avuto ancora il tempo di ultimarlo. Ripassate la settimana prossima!”– Era da tanto tempo che ci aveva promesso un fucile. Ogni volta, però, che ci recavamo da lui aveva sempre una scusa pronta per dirci che non lo aveva ancora terminato di fare (ho capito più tardi il perché: egli era contrario alle armi e non voleva che ci giocassimo). La sagoma era già stata costruita: un pezzo di legno di corniolo liscio e pulito quanto un dente di cane. Era stato sistemato su un balcone murato, confinante con una siepe sempreverde. –“L’ho sempre dinnanzi, così mi posso ricordare di terminarlo!”– ci diceva. Ma tutte le volte si verificava la stessa cosa, così non fu mai terminato. Ancora giovane lo zio ci lasciò, ma quel piccolo fucile di corniolo è rimasto sul balcone, quasi dimenticato, pieno di ragnatele. Quel ricordo mi sovviene ancora e mi fa ripensare con nostalgia a quello stanzino. |
La sveada da la vierta
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Il risveglio della
primavera
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I
surisus
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I
topolini
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‘Na zornada di unvier
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Una giornata d’inverno |
‘Na zornada di unvier
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Una
giornata d’inverno
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Pan e vin (Foghera) |
Falò |