Tiaris
di Cjanal del Fier
Terre del Canal del Ferro
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L’orizzonte mitico del Canal del Ferro
DOMENICO ZANNIER
Stretto e incassato tra le rocce ferrigne il Canal del Ferro si allarga di tanto in tanto in diramazioni vallive laterali e conche di intenso effetto paesaggistico. Lo scenario di Moggio è uno dei più pittoreschi dell’intero arco alpino. Resiutta conduce agli assolati pendii di Resia. Chiusaforte apre con la Val Raccolana verso Sella Nevea. Il trono regale del Montasio si specchia nel Fella a Dogna con i rosei riflessi di una eterna aurora. Pontebba corona la valle e introduce alla Val Canale dai vasti boschi, preludio alle estese valli della Carinzia lacustre. Per il Canal del Ferro sono passati popoli e popoli e tutti hanno lasciato le loro tracce toponomastiche. Ma dopo duemila anni è notevole il fatto che persista una latinità celtica, a dispetto di tutte le invasioni ricorrenti. Giuseppe Marchetti parlava di itatinizzazione della vallata, ma a mio avviso i tratti di antichissima conservatività linguistica inducono a una presenza linguistica molteplice e di confronto in cui di nuovo è prevalso il discorso latino. Prova ne sia la conservazione nel Canal del Ferro, come in poche altre aree del friulano rilevabili in Carnia, del nesso "int" per il latino "ant" constatabile negli esiti "vèvint, vignivint" (latino "habebant", "veniebant" ecc.). La "t" finale è caduta in tutto il territorio ladino. Dicevamo che il confronto tra più culture ha portato senza dubbio a una conservatività da un lato e a una evoluzione dall’altro e inoltre ha arricchito il bagaglio mitico e leggendario delle tradizioni popolari. Già Michele Gortani rilevava il ricco folclore narrativo delle genti del Canal del Ferro, di cui rivelava le affinità con analoghi esiti mitici della Carnia e dell’intero Friuli, staccandoli nel contempo dal mondo di Resia e della Val Canale, contigui, ma etnicamente diversi. Di striis e di orcui (streghe e orchi) è pieno l’universo popolare. E così pure di gnomi, folletti, maghi, di esseri primitivi, di diavoli. Un grande rilievo hanno le aganis, specie di ninfe o nàiadi, i cui connotati differiscono da quelli ipotizzati in altre parti della Regione. Un tratto caratteristico è quello di avere i piedi a rovescio e talvolta anche i polpacci. Sono dipinte come vecchie e brutte, quasi confondendole con le streghe, o bionde e bianche e pure belle. Possono avere anche una loro regina ornata d’oro. Viene attribuita alle aganis anche una sorta di antropofagia, come fossero delle sirene omeriche, che rapiscono gli uomini. Sarebbe utile accostare questi particolari mitici ad altre culture per un più approfondito discorso delle origini. La lista si allunga con l’orco sempre localizzato in un determinato ambiente: la Val Raccolana, il Fontanon, Casasola, Povici (S¸ tâi), il Monte Amariana. La sua tipologia non presenta aspetti diversificati dal resto del territorio friulano. Stessa sorte tocca al vèncul, personificazione dell’incubo notturno. Quando arriviamo agli "Spiriti" ci troviamo di fronte a un mondo di proiezione ultraterrena della vita, quasi un intreccio tra mondo visibile e invisibile, tra forze di personaggi evocati dalle tenebre del mistero eppure radicati nella realtà paesana. La Bâbeberte e la Mâri da le gnot ci rituffano nelle paure della preistoria. Anche se in seguito adoperati per i fanciulli, questi miti non sono nati per il mondo infantile. Nell’evoluzione dei millenni sono stati come derubricati e declassificati. E che dire di striis e striaments (streghe e stregonerie)? Siamo in compagnia di un universo culturale che abbraccia l’area mediterranea come quella nordica e alpi-na, senza distinzione di gruppi linguistici. È la rimozione della donna, il cui potere vitale ingenera nell’uomo ancestrali paure. La localizzazione ambientale è di rito anche per le streghe e del resto per varie persone tuttora non è leggenda, ma credenza. La civiltà dei monti e dei campi sfuma in una misteriosa atmosfera di sortilegi e di malefici. Ne fanno le spese pe lo più gli animali domestici, spesso unica sostanziosa fonte di sostentamento: mucche e maiali. Si aggiungano le possessioni diaboliche. C’è sempre un’ alleanza tra la strega e il demonio. A dispetto di quanto proclamava Giosuè Carducci a proposito dei miti carnici, qui non è evitabile l’atmosfera cupa del Nord, almeno del tutto. Il diavolo e i dannati fanno parte dell’essere del mondo e partecipano al suo perenne travaglio. Decisamente più serena e confortevole è la visione dei morti e dei santi. È il ritorno dei trapassati nel focolare in cui ha palpitato il loro cuore e dove vibra la vita dei loro discendenti e la stirpe continua. I Friulani non hanno bisogno di copiare miti e feste perchè le zucche intagliate e illuminate dall’interno sono sempre state di casa. Le processioni dei defunti sono pellegrinaggi di speranza e rinnovano il contratto tra morti e vivi senza soluzione di continuità. Ed è chel âtri mont (il mondo dell’aldilà) a irrompere nella realtà d’ogni giorno. Fioriscono nomi singolari: Marcandâle, Bele, Zefìro. Il confine tra la terra e il cielo, tra il quotidiano e il magico non esiste. Possiamo quindi passare nel prosieguo di questo volume, che fa parte di una vasta collana abbracciante l’intero Friuli, ai racconti di tesori scoperti o ritrovati e a quelli sull’origine di un luogo, alle narrazioni tra fiaba e storica realtà, variamente mescolate. Ce ne sono per tutti i gusti del fantastico. Si riflettono in esse culture antiche, memorie sopite e trasformate dal tempo, episodi vissuti, temi morali. Troviamo inserite preghiere e devozioni popolari, storie di santi e di chiese, episodi di scongiuro apotropaico degli avversi elementi atmosferici. E infine, dopo un immaginoso "bestiario" dal sapore medioevale, dove bisce e serpenti la fanno da padroni, giungiamo a una interessante e varia rassegna di racconti tradizionali. La carrellata è finita. Svetta sul suo colle l’Abbazia di Moggio da sempre fulcro storico e spirituale di questa vallata tutta friulana. Tutto attorno, paese per paese, pulsa la vita, che senza alcuna retorica, osserviamo responsabile e seria in un mondo piuttosto smarrito. Questo documento mitico e leggendario resterà nel tempo a perpetuare la memoria, la cultura e lo spirito della gente del Canal del Ferro, cui auguro un futuro correlato alla sua storia e alla sua civiltà.
3. Le’ aganis a le’ èrin trei vedranis di sclûse, vecjis, ch’a no le’ volèvin savê di nue e di nisun. A’ son ladis a vivi sot il clapus, dongje le Macile, e cualche vôlte a le’ smontàvinjù fin ta Fele. A le’ vèvin i pîs ladrous e a le’ vivèvin come i salvadis. SCLÛSE
Le acquane
3. Le acquane erano tre zitelle di Chiusaforte, vecchie, che non volevano sapere di niente e di nessuno. Andarono a vivere sotto una roccia sporgente, a fianco della Macile, e tavolta scendevano giù fino al Fella. Avevano i piedi girati all’indietro e vivevano da selvagge. CHIUSAFORTE
7. A l’ere une vôlte une pôre fèmine, ch’a le veve une sgrumie di fruts e fra ches¸cj ancje trei frutis. Le fèmine a le tirave indavant bessole le barache, parceche l’om al ere ator pal mont e nol deve segno di tornâ dongje. Le’ trei frutis si barufàvin simpri, si pestàvin e le mâri di continuo ur vosave: – Sù, frutis, cujetàisi! Ma nol servive a nue. Le’ frutis, man man ch’a le’ cresèvin, a le’ diventàvin simpri pui tristis. Une dì a l’è passade di aì une vecje di Rêsie, ch’ai disèvin ch’a l’ere une strie, propi tal moment che le’ trei frutis si pestàvin, si tiràvin i cjavei, si sbregàvin i grimâi, chei di regadin botonâts par daûr cui botons di soldâts. – Oh, ce tristis ch’a son ches¸tis frutis! – a l’à dit le vecje a le mâri – Màndilis vie, mo, vencilà! Sta di fat che cualche sere dopo le’ frutis a le’ van, sì, a durmî, ma tal indoman no le’ son pui a cjase. – Dolà sono ladis a finîle? – a l’à dit le mâri, e cîr di ca e cîr di là, no le’ à cjatadis di nisune bande. Une dì, dopo un brut temporâl, a l’è vignude une montane; chei ch’ai làvin a gladops ai àn viodût a bulinâ sot il "Clap soldât" (a si clame cussì parceche par antîc ai àn cjatât dongje chel clap un soldât muart), dolà ch’a l’è une caverne, une bûse. Cui èral, po? Le’ trei frutis, ch’a le’ èrin diventadis aganis. Eco cui ch’a son le’ aganis: trei femenatis tristis, sporcjis, sgjaveladis, sgnarcleôsis, ch’a le’ cjamìnin cui pîs davantdaûr, parcech’ai àn il talon davant e le ponte daûr. RACOLANE
Le tre acquane
7. C’era una volta una povera donna, che aveva tanti figli e fra questi anche tre bambine. La donna doveva sopportare da sola il peso della famiglia, perché il marito era in giro per il mondo e non dava alcun segnale di riavvicinamento. Le tre bambine baruffavano sempre, si picchiavano e la madre continuamente le sgridava: – Su, bambine, state buone! Ma non serviva a nulla. Le bambine, man mano che crescevano, diventavano sempre più aggressive. Un giorno passò di lì una vecchia di Resia, che dicevano essere una strega, proprio nel momento in cui le tre ragazze si picchiavano, si tiravano i capelli, si strappavano i grembiuli di rigatino, chiusi sulla schiena con bottoni da soldati. – Oh, come sono cattive queste ragazze! – disse la vecchia alla madre – Mandatele via! Sta di fatto che qualche sera dopo le ragazze andarono come al solito a dormire, ma durante la notte scomparvero. – Dove sono andate a finire? – si chiese la madre, e cerca di qua e cerca di là, non le trovò da nessuna parte. Passò qualche tempo e un giorno, dopo un brutto temporale, venne una gran piena; quelli che andavano a raccogliere la legna trasportata dalle acque del fiume notarono un movimento di persone poco più giù del "Clap soldât" (si chiama così, perché anticamente lì hanno rinvenuto, accanto al masso, un soldato morto), dove si trova una caverna, una buca. E chi si rivede? Le tre ragazze, ch’erano diventate acquane. Ecco chi sono le acquane: tre donnacce malvagie, sporche, scarmigliate, mocciose, che camminano con i piedi girati all’indietro, perché hanno il tallone davanti e la punta dietro. RACCOLANA
14. Jo varài vût siet o vot agn cuant che, sentât su le bancjute davant di cjase, jo stavi cjalant l’âghe da le Macile ch’a le colave jù pa’ le spisande, pròpit di chê âtre bande da le val, sot li’ monts di Rêsie. Le mê atenzion si ere apene spostade sul clapus ch’al è pròpit aì dongje, cuant ch’a l’è rivade mê nône. Non le clamàvin nône e j vulèvin ben come a une nône, ma a l’ere dome le madrigne di gnostri pâri. Jei, rivant, a le fâs: –Ce stastu cjalant, là sù, frut? – Jo cjalavi chê buchere ch’a l’è sot dal cret, dongje da le Macile, nône. – Al è il "Clapus¸ da li’ aganis", chel! – E ce èisal un clapus? – Al è come che tu disevis tù, une specie di buchere, une grote, une caverne sot dai crets. – Chel clapus aì, èisal tant font? Fin dulà rìval? E vou seiso mai stade dentri? – No, jo no sei mai stade là sù, ma cuant che jo eri frute a’ disèvin i vècjos¸ che une vôlte al lave indentri fintramài sot da le mont Cjanine, di chê bande di Rêsie. Cumò, chei che a’ son stâts a’ dìsin ch’al finis aì. Fòrzit le jentrade a l’è slacade o fòrzit no son plui bons di cjatâle. – Ma chestis… aganis èrino a stâ là sù, di là da le Fele? – Sigûr! E jo crout che a’ segnin ancjemò là vie dentri. Lôr no son migo fèminis come chê’ âtris, ve’! – No? E cemût sono, po? – A’ son dutis blancjis, vistidis di blanc, cui cjavei clârs – come il scus¸ da le panôle – lis¸ e luncs fin cuâsi tal cûl. Ma le roibe che li’ rint tant diferentis di dutis chê’ âtris fèminis a son i pîs: ju àn sladrosâts! – Cemût puèdino jessi i pîs… sladrosâts? – Insome, i pîs ju àn par daûr e i talons par davant. A’ stan simpri dentri, sot dal clapus e a’ vègnin fûr dome di gnot, cuant ch’a l’è le lune plene. A’ scuègnin stâ atentis che il sorêli no li’ cjapi di fûr, se no a’ mùrin. – Vou, nône, li’ veiso mai viodudis? – No, frut, jo no li’ ài mai viodudis, cumò al è un pieç che nisun li’ viout pui, ma chescj agn, cuant che jo eri frute, jo ài cognosût tancj di lôr che li’ vèvin viodudis, di gnot in ta Fele, intant ch’a’ lavàvin i linzûi dai pùars e dopo ju metèvin a suâ di fûr dal clapus. – E chel gravon ch’al comence di fûr dal clapus e al va jù fin ta Fele? – Sas¸tu, frut, cun chei pîs sladrosâts a’ fasèvin fadìe a cjaminâ e le mont, aì, a l’è rìpide, duncje, chel gravon lu àn fat lôr a fuarce di lâsù e jù a lavâ linzûi e mètiju a suâ… Di chel moment jo ài vût une robe sole tal cjâf, par ungrum di timp: lâ a viodi il "Clapus da li’ aganis". Jo eri sigûr che sares rivât a cjatâ chel passaç segret ch’al portave tal lôr mont. Però al esisteve un problema, jo eri masse pìçul par podê traviersâ le Fele… e cuant che jo sei diventât avonde grant, par podê passâ l’âghe dibessôl, li’ aganis no mi interes¸àvin pui! Cumò il "Clapus¸ da li’ aganis" al è taponât cuâsi dal dut dai sterpârs e ancje il gravon al è in gran part inbonît, segno che li’ aganis d’in chê vôlte no son pui tornadis a vignî-fûr… CJASESOLE
Le acquane
14. Potevo avere sette o otto anni quando, seduto sulla panchetta davanti a casa, stavo guardando l’acqua del rio Macile che precipitava a cascata dall’altra parte della valle, sotto i monti di Resia. La mia attenzione si era appena spostata su una roccia aggettante poco discosta allorché arrivò mia nonna. Noi la chiamavamo nonna e le volevamo bene come fosse la vera nonna, in realtà era la matrigna di nostro padre. Ella, avvicinandosi a me, mi chiese: – Cosa stai guardando, lassù, bambino? – Osservo quella cavità sotto la roccia, nei pressi del rio Macile, nonna. – Quello è il "Clapùs da li’ aganis"! - E cos’è un "clapùs¸"? – È, come dicevi tu, una cavità, una grotta, una caverna ai piedi della roccia. – Quel "clapùs¸" è tanto profondo? Fino dove arriva? E voi, siete mai stata lì dentro? – No, io non ci sono mai stata, ma quando ero bambina i vecchi raccontavano che una volta quella cavità penetrava nella montagna fin sotto il monte Canin, dalla parte di Resia. Ora, chi vi è stato di recente non ha trovato traccia del passaggio. Forse l’ingresso è ostruito da una frana o forse nessuno è più in grado di individuarlo. – Ma queste… acquane abitavano lassù, oltre il fiume Fella? – Certo! Io credo che vivano ancora là dentro. Loro non sono mica donne come tutte le altre! – No? E perché? – Sono completamente bianche di carnagione, hanno vestiti candidi, capelli chiari come le foglie secche della pannocchia, lisci e lunghi fino in fondo alla schiena. Ma ciò che le rende diverse dalle altre donne sono i piedi rovesciati! – Come sono i piedi… rovesciati? – Insomma, la punta sta dietro e il tallone davanti. Vivono sempre all’interno della cavità ed escono solo di notte, quando splende la luna piena. Devono stare attente a non prendere il sole, altrimenti muoiono. – Voi, nonna, non le avete mai notate? – No, bambino, non le ho mai viste; da un po’ di tempo nessuno le vede più, ma anni fa, quand’ero bambina, ho conosciuto tante persone che le avevano sorprese di notte sulle rive del Fella a lavare le lenzuola dei poveri, che poi mettevano ad asciugare davanti al loro riparo. – E quel ghiaione che parte dalla cavità e scende fino al fiume? – Sai, bambino, loro facevano fatica a camminare con i piedi rovesciati, lì il pendio è ripido e quel ghiaione è opera loro, a forza di andare giù a lavare le lenzuola e tornare su per metterle ad asciugare… Da quel momento, e per diversi anni, ebbi un chiodo fisso in testa: andare a visitare il "Clapùs da li’ aganis". Ero sicuro di rintracciare quel passaggio segreto che mi avrebbe condotto nel loro mondo. Però c’era un ostacolo: il Fella, ed io ero troppo piccolo per guadarlo… Quando, ormai cresciuto, potevo attraversare da solo l’acqua del fiume, le acquane non mi interessavano più! Ora il "Clapùs¸ da li’ aganis" è quasi completamente nascosto dai cespugli ed anche il ghiaione è inerbito, segno che da tanto, tanto tempo le acquane non escono più dal loro rifugio… CASASOLA
18. L’orco – cussì a le contave mê mâri – al ere un omenon grant e gros, ch’al saltave di ca e di là dal Raclàniz. Le int dal Cjanâl, ch’a le vignive fûr a pît cui scarpets, a lu podeve scuintrâ in cualsìasi moment. Lui al ere dispetous, al tirave claps, al sbeleave, al faseve brutis bocjatis. Le int a l’ere stufe di cheste solfe. Une dì gno bisnôno, ch’al ere un om coragjous, al cjapesù il fusîl e lu va a cirî. Lu cjate sul Plan da le Siee, al cjame l’arme cun pòlvar benedet e al dîs: – Madone benedete, fa’ ch’a j rivi drete! Al tire une sclopetade, lu ferìs e l’orco, cainant, al scjampe viers il Fontanon di Goriude. D’in chê dì nisun no lu à plui viodût. SCLÛSE
L’orco
18. L’orco – così raccontava mia madre – era un omone grande e grosso, che saltava di qua e di là del torrente Raccolana. Gli abitanti della vallata che si recavano in paese (a Chiusaforte), calzando gli scarpetti, lo potevano incontrare in qualsiasi momento. Egli era dispettoso, tirava sassi, mostrava la lingua, faceva le boccacce. La gente era stanca di questa solfa. Un giorno mio bisnonno, uomo coraggioso, prese il fucile e partì alla ricerca dell’orco. Lo trovò sul Pian della Sega, caricò l’arma con polvere benedetta e disse: – Madonna benedetta, fa’ che gli arrivi diritta! Tirò una schioppettata e lo ferì; l’orco, urlando dal dolore, fuggì verso il Fontanon di Goriude. Da quel giorno nessuno lo vide più. CHIUSAFORTE
26. Su la mont Mariane, ch’a l’è un vulcan studât, oltre ai spirts e a la regjine da li’ striis, in tune caverne al viveve un orc, ch’al veve vût di lôr il permes di stâ aì. Al ere grandon e pelous, cun dôs gjambis grandis, par no dî dai braçs, cun dô’ çafonis e cu li’ onglis lungjis… Al jesivefûr sul vignî gnot par controlâ dute la valade e al veve di ritirâsi prime ch’a la vignìs gnot scurade. Al meteve un pît su la Mariane e chel âtri sul Cjanin. Cu li’ mans a’ si tignive dal Pisimoni e par chest la mont a l’à dô’ gimis: la ponte di une a’ la à spiçade lui, par tignîsi miôr. Il so còmpit al ere chel di stâ atent se ducj i fruts, di sere, ai preàvin l’Àgnul custodi, l’Avemarìe e il Requie pai muarts. Chei fruts ch’a’ no preàvin ai fasèvin une brute fin: ancje se i balcons ai vèvin i gàtars, lui cu la sô manone e cun chê’ onglis lungjis a’ ju tiravefûr e a’ ju mangjave. Cuant che lui an veve masse, a’ ju deve a la regjine da li’ striis, par bòliju ta cjalderone dal vueli bulint, ch’al servive par fâ i bevarots pai striaments. OVEDAS
L’orco del monte Amariana
26. Sul Monte Amariana, che è un vulcano spento, oltre agli spiriti e alla regina delle streghe, in una caverna viveva con il loro permesso anche un orco. Questi era molto grande e peloso, con due gambe e con due braccia assai lunghe, con due mani enormi e con le unghie affilate… Usciva quando calava il buio: controllava l’intera valle e poi doveva ritirarsi, prima che venisse notte fonda. Appoggiava un piede sull’Amariana e uno sul Canin. Con le mani si sorreggeva sul monte Pisimoni e perciò esso ha due vette: la punta di una è stata da lui aguzzata per aggrapparsi meglio. Il suo compito era quello di sorvegliare che tutti i bambini, di sera, recitassero la preghiera dell’Angelo custode, dell’Avemaria e una Requiem per i morti. I bambini che non pregavano facevano una brutta fine: anche se le finestre avevano le inferriate, l’orco con le sue grandi mani munite di unghie ad artiglio riusciva a tirarli fuori e a mangiarli. Quando ne aveva di troppo, li offriva alla regina delle streghe, che li immergeva nel calderone dell’olio bollente, utilizzato poi per le pozioni degli stregamenti. OVEDASSO35. Une vôlte li’ fèminis, par fânus paùre, nus disèvin che di gnot, dopo sunade l’Avemarìe, no si podeve pui lâ ator: a la girave la Pelôse, une femenate ch’a la spaventave ducj i fruts, opur a la vignive la mâri da la gnot. Ancje il Bobô al lave ator pa’ li’ stradis cun tun grant sac a cjapâsù ducj i fruts ch’al cjatave fûr di cjase. Come s’a’ no bastas, al girave pai cuvierts di vie Nadorie (ch’a l’ere une strade strete) il Rangotan: al veve li’ gjambis lungjis e al saltave di un cuviert a chel âtri. Di là sù al viodeve dutis li’ copiutis ch’a li’ làvin a fâ l’amôr e s’al cjatave cualche fantate ch’a’ j plaseve, a la portavevie cun sè e il fantat al restave aì come un stùpit. Non vèvin il terôr di chescj personàgjos: dopo l’Avemarìe no làvin nancje a cjoli l’âghe ta fontane. MUEÇ
Dopo l’Avemaria, tutti a casa
35. Una volta le donne, per spaventarci, ci dicevano che alla sera, dopo il suono dell’Avemaria, non si poteva più andare in giro: si poteva incontrare Pelôse, una brutta donna che metteva paura a tutti i bambini, oppure la "madre della notte". Anche Bobô girovagavaper le strade con un gran sacco, per mettervi dentro i bambini che ancora stavano fuori casa. Come se non bastasse, sui tetti di via Nadòrie (ch’era una stradina stretta) se ne stava Rangotàn: aveva le gambe lunghe che gli permettevano di saltare da un tetto all’altro. Da lassù poteva osservare tutte le coppiette d’innamorati e se individuava una ragazza che gli piaceva, la portava via con sé, lasciando di stucco il fidanzato. Noi avevamo il terrore di questi personaggi: suonata l’Avemaria, non andavamo neppure ad attingere acqua alla fontana. MOGGIO
37. Gno pâri mi contave che, cuant ch’al ere frut, i grancj ai làvin ogni an in pelegrinagjo sul Lussari. Ai làvindentri a pît pal Cjanâl di Dogne fin in Somdogne, ai làvinjù ta Sàisare e dopo ai làvin su le Mont Sante. Il viaç al ere lunc: a’ bisugnave stâ vie di cjase almanco doi dîs. Par no portâsi daûr i fruts, che di sigûr ai sarèssin stâts d’intrîc, a’ ur contàvin che a cirche miege strade su pa’ le Mont Sante, a si scugnive fermâsi in tune cjase indu’ch’a l’ere une certe Bâbebèrtule, une femenate vecje che par lasâ passâ i fruts a le pratindeve che a’ j busàssin il cûl: e pensâ ch’al ere plui di vincj agns ch’a’ no si lavave e duncje a le puçave di mats. I fruts, sintint dut chest discors, ai restàvin talmenti spaventâts che ai preferìvin stâ a cjase cui nônos. DOGNE
Bâbebèrtule
37. Mio padre mi narrava che, quand’era bambino, gli adulti andavano ogni anno in pellegrinaggio sul ussari. A piedi attraversavano tutta la Val Dogna, scendevano nella Val Saisera ed infine salivano alla chiesetta del Lussari. Il viaggio era lungo: occorreva star lontani da casa almeno due giorni. Per non trascinare con sé i bambini, che sarebbero stati sicuramente d’impiccio, raccontavano loro che salendo sul monte Lussari, a mezza strada circa, bisognava sostare in una casa abitata da una certa Bâbebèrtule, una donna brutta e vecchia che lasciava passare i bambini solo se le baciavano il sedere: e pensare che da oltre vent’anni non si lavava e quindi puzzava da matti. I bambini, sentendo simili discorsi, rimanevano talmente scossi che preferivano restare a casa coi nonni. DOGNA
63. In tal paîs a la viveve une fèmine ch’a’ no l’ere trop ben vedude: a la jentrave in ta’ cjasis cence dî "permesso" e spes tu cji la cjatavis daûr di te cence nacuàrgicji. Ai disèvint ducj ch’a l’ere une strie, parcech’a la veve li’ mostacjis blancjis e a la faseve il trist vouli. Chest che conti al è un fat vêr. A dô’ fèminis dal paîs il preidi al veve dat di puartâ il poç tal cjamp, par mètilu daûr li’ gjambis dal sorc, dato che cu la stale lôr no ’la vèvin vût fortune. In tun dopodimis¸dì une da li’ dô’ fèminis a’ si è cjatade cheste strie in cjase, cence vêle sintude jentrâ, e a’ si è sintude a dî: – Di’ po, mi darèsistu a mì il poç di puartâfûr? – Mah, – a’ j à rispundudi la fèmine – no sai s’a m’ in’ reste parceche, tu sâs, a’ sin belzà in dôs a puartâlufûr. Di rimando, a’ j à diti la strie: – Alore, mi lu dastu o no mi lu dastu? E la rispueste di gnûf a l’è stade: – Sì, sa m’in’ reste. Cheste femenate a l’à fat par jesi di cjase, a’ si è girade di gnouf, a l’à cjalât di triste viers la scune indulà ch’a la durmive la frute di trei meis e zornadis e, dute inrabiade, a l’à dit: – Ben, po ben! – e a l’è lade. Vizin da la frutine a l’ere ancje sô nône. Cuant ch’a l’à sintût che la strie a la voleve il poç di puartâfûr, a l’à cirût di fâ capî cui mòtos a la brût ch’a’ j a lu des, bastas ch’a la fos lade fûr di cjase, ma la âri da la frutine no la veve capide. Cussì cheste frutine a l’à tacât a vaî disperade e nue a l’à zovât par cujetâle. A l’è lade indavant cussì dute la gnot. Tal indoman al ven clamât il miedi e chel nol saveve spiegâsi ce ch’a la podeve vê la pìçule. La nône no si deve pâs e ’la continuave a dî a la brût: – Puarte a fâ benedî li’ cjamesutis da la frute prime ch’a li’ pàssin tanti’ oris e ch’a’ no segni masse tart. La mâri no ’la crodeve tant a chesti’ roubis, fin che no si è convinçude a lâ dal preidi, ch’al ere un sant preidi, cu la robute da la pìçule. A’ j à contadi ce ch’al ere sucedût e a’ si è sintude rispuindi: – Jo fasarài dut il pusìbil, ma j’ài poure ch’al segni masse tart! La frute in trei dîs¸ sane e muarte. Al ven visât il pâri ch’al lavorave ta miniere di Cave. Chel a nol crodeve ch’a la fos muarte, parceche a la veve lasade biele e sane. Cuant ch’al è rivât a cjase, dal grant displasê al à dit: – Se cheste muart no l’è di Dio volude, ma di man mandade, chê fèmine ch’a la veibi di vivi tant ch’a l’à vivût ê fie! E cussì al è stât. Chê strie a l’à vivût trei meis e poucjis zornadis e a’ j son volûts trei dîs par murî, cul preidi vizin di jei, dut sudât a preâ cun fadìe. Cuant ch’a l’è spirade, al è vignût un gran’ temporalon. Il preidi al à clamât a dovê il pâri da la frutine e a’ j à diti di no rimandâ plui il mâl ch’a’ si à ricevût, ma di perdonâ. OVEDAS
La bambina stregata
63. In paese viveva una donna che non era troppo ben vista: entrava nelle case senza chiedere permesso e spesso te la ritrovavi alle calcagna senza accorgerti. Tutti dicevano che era una strega, perché aveva i baffi bianchi e gettava il malocchio. Ciò che racconto è veramente accaduto. Il prete aveva assegnato a due donne il compito di svuotare la vasca del suo gabinetto: avrebbero concimato i campi di granoturco, non avendo a disposizione, quell’anno, il letame della stalla. Un pomeriggio, una delle due donne si trovò in casa la strega, senza averla sentita entrare; questa le disse: – Senti un po’, permetti he sia io a svuotare la vasca del gabinetto del prete? – Mah, – le rispose la donna – siamo già due che vorremmo utilizzare quel concime. Non so se ce ne sarà anche per te. Di rimando, la strega incalzò: – Allora, mi permetti o non mi permetti? E la risposta di nuovo fu: – Sì, se ce n’è abbastanza per tutte. Questa brutta donna fece per uscire di casa, si girò nuovamente e lanciò uno sguardo cattivo verso la culla dove dormiva la bambina di poco più di tre mesi e, tutta arrabbiata, disse: – Bene, bene! – e se ne andò. Accanto alla bambina c’era anche la nonna. Quando ella sentì che anche la strega voleva svuotare la vasca, cercò con motti di far capire alla nuora che conveniva acconsentire, purché la strega se ne fosse andata, ma la madre della piccolina non aveva inteso. La bambina si mise a piangere disperata e nulla giovava a calmarla. E così per l’intera notte. L’indomani fu chiamato il medico, che non riuscì a spiegarsi cosa potesse avere la piccola. La nonna, nel frattempo, non si dava pace e continuava a dire alla nuora: – Porta a fare benedire le camiciuole della bambina, prima che passino tante ore e che sia troppo tardi. La madre non credeva agli stregamenti, tuttavia si convinse ad andare dal prete, ch’era un santo prete, con i vestiti della piccola. Gli raccontò quanto era successo e si sentì rispondere: – Io farò il possibile, però temo che sia troppo tardi! La bambina in tre giorni fu sana e morta. Venne avvertito il padre, che lavorava nelle miniere di Cave. Questi non credeva che la figlia fosse morta, perché qualche giorno prima l’aveva lasciata bella e sana. Quando arrivò a casa, preso dal dispiacere, disse: – Se questa morte non è stata voluta da Dio, ma è frutto di una stregoneria, ebbene, quella donna viva ancora quanto ha vissuto mia figlia! E così avvenne. Quella strega visse ancora per tre mesi e qualche giorno; restò in agonia per tre giorni, con il prete accanto, che pregava a fatica e sudava. Quando spirò, scoppiò un gran temporale. Il prete richiamò al dovere il padre della bambina raccomandandogli di non rendere il male ricevuto, ma di perdonare sempre. OVEDASSO
70. Un s¸triament ch’al à fat a so timp un biel pôc di sunsûr al è chel dal mulin. Une strie, fòrsit chê stesse nomenade par altris liendis, a l’è restade famôse par vê fat funzionâ la ruede dal mulin cence la fuarce da l’âghe. Al ere sucedût che, pal masse sec, o par cualchi roture ta condote da l’âghe, il vuancj ch’al puarte l’âghe a lis palis dal mulin al ere dut sut e no si podeve masinâ la blave. Poben, in chê dì la strie, cun tun so artebòlic, a l’è rivade a fâ girâ distes la ruede dal mulin e a fâ masinâ la farine. Il fat al à maraveât e ancje scaturît dute la int dal borc ch’a l’à volût spiticâs¸i par capî il misteri e cussì a l’è saltadefûr la cuestion dal libri nêri, che la strie la doprave, leint li’ fòrmulis adatis par ogni ocasion, otignint chel ch’a la voleve. A’ s i dîs che chest libri nêri al sedi rivât a S tudene puartât di une zìngare o une pelegrine e regalât a chê fèmine in cont di cualchi jutori in mangjative. La facende dai striaments ’la finì cuant ch’al fo clamât un preidi a puartâ l’âghe sante benedete e a ritirâ il libri maladet. STUDENE BASSE
La strega del mulino
70. Uno stregamento, che aveva fatto a suo tempo parecchio scalpore, riguardava un mulino. Una strega, forse la stessa protagonista di altre leggende, è rimasta famosa per aver fatto funzionare la ruota del mulino in assenza di acqua. Infatti era accaduto che un giorno, o per l’eccessiva siccità o per un guasto alla condotta idrica, la doccia che portava l’acqua alla pala del mulino era completamente asciutta e non si poteva macinare il granoturco. Ebbene la strega, con uno dei suoi sortilegi, riuscì a far girare lo stesso la ruota del mulino e a far macinare la farina. L’avvenimento meravigliò molto gli abitanti della borgata; questi, desiderando approfondire il caso, scoprirono che la strega si serviva di un libro nero che riportava formule magiche efficaci per ogni tipo di fattura. Si racconta che questo libro nero, giunto a Studena tramite una zingara o una pellegrina, era stato ceduto a quella donna in cambio di un po’ di cibo. Tutti gli stregamenti cessarono quando un prete, chiamato a impartire la benedizione con l’acqua santa, s’impossessò finalmente del libro maledetto. STUDENA BASSA
80. Tant timp fa le Fele a l’ere pìçule come un riù: dongje Prèrit, a Dogne, a’ si le passave saltant i claps. Aì al ere un grant cocolâr, clamât il "nujâr gràvit". Un zòvin dal Cjanâl, passant sot il "nujâr gràvit", al à cjatât par cjere un curtìs di sachete (in chê vôlte a’ si clamave "brìtule"). Dut content a lu à cjapât-sù, a lu à metût ta sachete e, rivât a cjase, a lu à mostrât ai siei amîcs disint: – A mi fâs¸ propri còmut cheste brìtule: a le siervarà, tal bosc, a tajâ il formadi e le luanie! Il zòvin, cun âtris, al è lât a lavorâ in Romanìe, tal bosc. Dopo zornadis e zornadis di viaç, prime di cjapâ le strade dal bosc a’ si son fermâts in paîs, in tune bètule e aì a’ si son metûts a mangjâ. Le chèlnare, domandant ce ch’ai volèvin di bêvi, a’ si è nacuarte da le brìtule e no le stacave mai i vôi di chel curtisut. Il zòvin, alore, a’ j à domandadi se a’ j plaseve le sô brìtule. Jei a le si è date une spachetade e a l’à dit al zòvin: – Chê brìtule a l’è mê! – Nol è pusìbil! – a’ j à rispundudi il zòvin. – Eh, sì – a l’à continuât le chèlnare – cuanche a le sone le Bernardone, al è cif e çaf a scjampâ par Somdogne! Vèvin vût une riunion sot il "nujâr gràvit" in Dogne, le vin tirade masse a lunc e cussì, par scjampâ, ài dismenteât le brìtule. Il zòvin e ducj chei ch’ai èrin cun lui ai son restâts cence flât: lasade aì le brìtule, ai àn guluçât i tavajuçs e in tun viodi e no viodi ai àn tajât le cuarde, cence voltâsi indaûr parce ch’ai vèvin capît che chê chèlnare a l’ere une strie. DOGNE
La strega del noce gravido
80. Parec hio tempo fa il fiume Fella aveva l’aspetto di un ruscello: a Dogna, nelle vicinanze di Prèrit, lo si varcava saltellando sui sassi. Lì vicino c’era un grande noce, detto il "noce gravido". Un giovanotto del Canale di Dogna, passando sotto il "noce gravido", rovò un coltellino (allora si chiamava "brìtule"). Contento, lo raccolse, lo mise in tasca e, giunto a casa, lo mostrò ai suoi amici dicendo: – Mi fa proprio comodo questo coltellino da tasca: servirà, nel bosco, per tagliare il formaggio e la salsiccia! Il giovane, con altri, andò a lavorare in Romania, nel bosco. Dopo giorni e giorni di viaggio, prima d’intraprendere la strada del bosco si fermarono in paese in un’osteria, ove mangiarono. La cameriera, nel chiedere loro cosa desiderassero bere, scorse il coltellino e da esso non staccò mai gli occhi. Il giovane allora le chiese se le piaceva il coltellino. Ella si diede una scrollata e affermò: – Quel coltellino è mio! – Non è possibile! – sostenne il giovane. – Eh, sì – riprese la cameriera – quando a Dogna suona la campana maggiore c’è un bel daffare per raggiungere Somdogna! Ci eravamo riunite sotto il "noce gravido" di Dogna, l’abbiamo tirata un po’ per le lunghe e così, nella fretta di scappare, ho dimenticato il coltellino. Il giovane e tutti quelli che erano con lui rimasero senza fiato: lasciato sul tavolo il coltellino, riavvolsero i cibi nei tovaglioli e in un batter d’occhio fuggirono, senza voltarsi indietro perché avevano capito che la cameriera era una strega. DOGNA92. Cuant che èrin fruts, par tignî lontan il demoni nus metèvin intorsi madais, benedizions, il triàngul e nus fasèvin preâ, "brununzie Satane" par fâ scjampâ li’ striis. Di sere par lâ tal gabinet, ch’al ere di fûr, non mularìe làvin in trei cuatri, tigninsi pai cotui par paùre che li’ striis nus portàssin vie. In chei agns i fantats da la borgade ai viodèvin spes in tun incrocio di stradutis come un fantasma blanc: insegnâsi, "brununzie", scjampâ di corse: al ere dut un. Une dì ce àno fat? Ai àn benedît cu l’âghe sante un baston, a’ si son svizinâts al fantasma par scunzurâlu, par fâlu scjampâ: ai àn scomençât a petâj-jù e ce èral sot i linzûi? Une strie vivente, ch’a l’à scugnût clamâ misericordie! MUNTISEL
Le streghe di Monticello
92. Quando eravamo bambini, per tenere lontano il demonio ci appendevano addosso medaglie, oggetti benedetti, il triangolo e ci facevano pregare; quante preghiere, "rinuncio a Satana" per scacciare il male. Alla sera, per recarci al gabinetto che era fuori, nel cortile di casa, noi ragazzine ci riunivamo in tre-quattro e ci attaccavamo per le gonne per paura che le streghe ci portassero via. In quegli anni i giovanotti della borgata vedevano spesso, all’incrocio di alcune stradine, qualcosa che poteva assomigliare ad un fantasma bianco: farsi il segno della croce, pronunciare "rinuncio a Satana" e fuggire di corsa: era tutt’uno. Un giorno, che cosa hanno pensato di fare? Hanno benedetto con l’acqua santa un bastone e si sono avvicinati al fantasma per scongiurarlo, per farlo scappare: l’hanno picchiato con forza e chi c’era sotto il lenzuolo? Una strega viva e vegeta, che implorava misericordia! MONTICELLO93. A Mujese, une pìçule borgade di Mueç, une vôlte al an li’ striis si cjatàvin cul plen di lune e li’ balàvin dute la gnot. Tal indoman la prime persone di Mujese ch’a la saltave fûr di cjase a la vignive trasformade in une bestie salvadie. Dopo un an, in tune biele gnot di lune plene, li’ striis a’ tornàvin a balâ e chel ch’al ere stât trasformât in bestie al cerive di tornâ a cjase sô. Se un da la famee lu cjoleve in cjase, al tornave la persone ch’al ere prime, se no al vares scugnût tornâ a provâ l’an dopo. MUEÇ
Le streghe di Moggessa
93. A Moggessa, piccolo borgo di Moggio, una volta all’anno le streghe si radunavano con la luna piena e ballavano tutta la notte. L’indomani il primo abitante che usciva di casa veniva trasformato in animale selvatico. Dopo un anno, in una bella notte di luna piena, esse si ritrovavano allo stesso posto a danzare e il malcapitato che era stato trasformato in bestia cercava di far ritorno alla propria casa. Se uno dei suoi familiari lo avesse accolto, le sue sembianze sarebbero tornate normali, altrimenti avrebbe dovuto ritentare l’anno successivo. MOGGIO113. Cuant ch’a l’ere fantaçute, le Munîne a le lave a portâ di mangjâ a so nôno, ch’al faseve il fornasêr ta fornâs di Raunis. Là sù, sot i crets, al sarà incjimò cualche stamp di fornâs. Une gnot le zòvine a si è sveade cul lusôr da le lune e a le crodeve ch’al si fases dì. Sicome in chê vôlte orlois no ’nd’ere, a l’è jevade di corse e a l’è partide cul mangjâ pal nôno tal gei. Cuant ch’a l’è rivade davant dal Bilic, a l’à vedût un om sentât su le bancje di clap ch’a’ j à diti: – Torne-indûr, frute… – Ma no, jo ài di portâ di mangjâ al nôno, jò! – Torne-indûr… – e dopo al è entrât ta cjase di front. Le Munîne no lu veve cognosût, ma lu à vedût di schene: di dûr al ere dut un scheletro blanc. Dome alore a’ si è rindude cont ch’al podeve jessi miegegnot, parceche a chê ore ai giràvin i spirts e le’ striis, ch’a le’ vèvin "voglio, posso, comando". Spaventade, a l’è tornade a cjase, tal jet, a spietâ dì. RACOLANE
Lo spirito di mezzanotte
113. Quand’era ragazza, Munîne andava a portar da mangiare a suo nonno, che faceva il fornaciaio nella fornace di Raunis. Lassù, sotto le rocce, ci sarà ancora qualche rudere della fornace. Una notte, la giovane si svegliò col chiarore della luna: credeva che stesse facendosi giorno. Poiché allora non v’erano orologi, si alzò alla svelta e partì col rancio per il nonno nella gerla. Quando arrivò davanti alla casa del Bilìc, notò un uomo seduto sulla panca di pietra che le suggerì: Torna indietro, ragazza… – Ma no, io devo portare il rancio al nonno! – Torna indietro… – e così dicendo entrò nella casa di fronte. Munîne non lo aveva riconosciuto, ma lo vide di schiena: era uno scheletro completamente bianco. Solo allora si rese conto che poteva essere mezzanotte, perché a quell’ora giravano gli spiriti e le streghe che disponevano del "voglio, posso, comando". Spaventata, ritornò a casa, a letto, in attesa del dì. RACCOLANA118. La case dai Crabôts a l’ere là sù a Pontàfel al nùmar 16, dulà ch’a’ stàvin mê nône, gno pâri e ducj non; sot a’ stàvin li’ bestiis e parsore a’ abitàvin non. I fruts a’ làvin a pason sul Calvari che in chê vôlte no èrin ne sterps ne nue parceche a’ èrin ungrum di vacjis, di cjâris, di piouris e i sterps no vèvin timp di cresi. In chê vôlte i fruts a’ passàvin pa’ li’ cjasis e cjolèvin li’ bestiis di dut il paîs e li’ portàvin-sù, in doi trei, a pason. Une dì il nôno, in chê vôlte al varà vût dîs agn, al ere di turno e a mis¸dì al veve di stâ là sù a vuardeâ li’ bestiis, intant che chei âtris a’ erin lâts a cjase. Li sul Calvari al ere ancje un pitôr ch’al piturave su li’ muradis da li’ stazions da la Via Crucis il Signôr in crous. Il nôno al ere sentât sun tun clap e s¸i sa come ch’a’ fàsin i fruts, al veve di fâ une pivete. Dut in tun moment al sint daûr un: – Cjo’, cjo’, cjo’! A l’ere une fèmine, siore, biele, zòvine, dute vistide di blanc e ’la veve une clâf in ta man e j voleve dâj al frut cheste clâf. Il frut si è s¸paventât e al è scjampât-jù a cjase e al à dit: ame, mame, jo no voi pui sul Calvari. A’ son lâts-sù in tancj ma no àn vedût nisun. Tancj agn dopo no j èsal capitadi ancje a gno pâri, no plui in chel stes puest, ma in cjase. A l’ere miegegnot e al à dit di vê sintût vignî-sù pa’ li’ s¸cjalis une persone ma lui no si è s componût parceche in chê vôlte si lasàvin viertis li’ puartis, nol è come cumò che bisugne sierâlis. Cheste persone ’la vierç la puarte e ’la ven dongje il jet: a l’ere une siore vistude di blanc e j voleve tirâ-jù li’ cuviertis. Ma lui li’ à tignudis cun dute fuarce e dopo ancje cui dincj. J à diti: – Va’ vie, va’ vie! – ma jei no l’è lade. Alore lui al à molât i dincj e al à tacât a blestemâ e cussì jei a l’è lade e no l’è tornade plui. Tal doman, passade la une, j àn domandât: –Ce àstu che tu seis dut blancjîs? – Eh, al è stât cussì e cussì. La nône, alore, j à dati subit il vueli di rìcino par passâ-fûr i spavents. Ancje cheste vôlte la siore ’la veve une clâf lungje lungje che fòrsit a l’ere une clâf di une casse sepelide cun bêçs, ma no si sa di plui parceche dopo al è vignût il Consei di Trent e no si è sintût altri. ’O sin ungrum indaûr cui agn. PONTEIBE
La signora di bianco vestita
118. La casa dei Crabôts si trova lassù, a Pontafel, al civico numero 16: al primo piano abitava la mia famiglia, compresa la nonna, al pianterreno c’era la stalla. I bambini conducevano le bestie al pascolo sul Calvario, che a quel tempo non era incespugliato proprio perché tante mucche, capre e pecore vi pascolavano. Allora due o tre bambini passavano per ogni casa del paese, si facevano consegnare le bestie e le accompagnavano lassù, al pascolo. Un giorno mio nonno, che allora aveva circa dieci anni, a mezzogiornoera di turno a sorvegliare la mandria, mentre gli altri compagni erano tornati a casa. Sul Calvario c’era anche un pittore, intento a dipingere il Signore in croce sui muri delle stazioni della Via Crucis. Il nonno era seduto su di un sasso e, come facevano tutti i bambini, stava costruendosi una pivetta. Ad un tratto sentì alle spalle una voce: – To’, to’,to’! Si girò e vide una bella signora, giovane, ricca, vestita di bianco: aveva in mano una chiave, che voleva consegnare al bambino. Questi si spaventò e scappò giù a casa; qui giunto, disse a sua madre: – Mamma, mamma, io non voglio più andare sul Calvario! Tanti si recarono poi in quel luogo, ma della signora non trovarono alcuna traccia. Parecchi anni dopo un fatto simile capitò a mio padre, non sul Calvario, ma in casa. Verso mezzanotte egli sentì dei pass lungo le scale che portavano alle camere, ma non si preoccupò: allora si dormiva tranquillamente, non si chiudeva chiave nemmeno la porta d’ingresso. Una persona giunse davanti alla porta della sua camera, l’aprì e si avvicinò al letto: era una signora vestita di bianco. Ella tentò di togliere le coperte, ma mio padre le teneva strette perfino coi denti. Ad un certo punto le gridò: – Va’ via, va’ via! Siccome la signora non la smetteva, egli lasciò andare le coperte che tratteneva coi denti e cominciò a bestemmiare: solo allora la donna se ne andò via e non si fece più vedere. L’indomani i familiari chiesero a mio padre: – Cos’hai? Perché sei così cereo? Egli raccontò tutto, per filo e per segno. La nonna immediatamente gli somministrò l’olio di ricino per rimuovergli lo spavento. Anche in questa occasione la signora si era presentata con una chiave lunga lunga, che poteva essere quella di un forziere pieno di soldi, sepolto chissà dove: non si sa nulla di più anche a causa del Concilio di Trento, risalente a tanti e tanti anni prima. PONTEBBA
137. L’àjar e il diau, partîts da l’Austrie, a’ son vignûts a pît fin a Sclûse. Cuant ch’a’ son rivâts sul punt da le Fele, l’àjar al dîs: – Cumò achì si saludin. – Parcè, po? – al domande il diau. – Eh, jo che sei l’àjar mi fermi achì. – E alore jò jo voi pa’ le’ cjasis! – al dîs il diau. Ancje vuei, no èsal simpri l’àjar sul punt? E il diau, no èsal par duti’ le’ cjasis? RACOLANE
Il vento e il diavolo
137. Il vento e il diavolo, partiti dall’Austria, sono arrivati a piedi fino a Chiusaforte. Giunti sul ponte del Fella, il vento dice: – Adesso qui ci salutiamo. – Perché mai? – chiede il diavolo. – Eh, io che sono il vento mi fermo qui. – E allora io vado per le case! – soggiunge il diavolo. Anche oggi, non c’è sempre vento sul ponte? E il diavolo, non si trova in tutte le case? RACCOLANA
150. Di fruts, cuanche vèvin di passâ là vie da le fornâs, dapît il riù Mulin tra Sclûse e Dogne, si metèvin a cori plens di poure parceche ai disèvin che aì al ere stât confinât par cjas¸tîc un grant pecjadôr, muart danât. Sul vignî sere, chel disgraciât al cirive cualchidun par podê liberâsi dal gran’ peis ch’al veve su pa’ le’ spâlis: un buinç cun doi cjaldîrs plens di bêçs d’aur. Nol voleve lasâsi viodi: al faseve Saltâ fûr di dûr un sterp une man ch’a le mostrave une palanche. Se tù tu acetavis chel bêç e tu j a lu cjolevis, alore lui a’ si liberave da le’ penis. A ti, danât in tal so puest, a cji tocjave portâ i siei cjaldîrs cun dut il peis dal aur, fin che tu cjatavis un âtri ch’a cji cjoleve le palanche e cussì cji liberave. SCLÛSE
Le secchie del rio Molino
150. Da bambini, allorché dovevamo passare nei pressi della fornace, nel basso corso del rio Molino fra Chiusaforte e Dogna, ci mettevamo a correre terrorizzati perché così raccontavano – lì stava scontando le sue pene un dannato, in vita gran peccatore. Al sopraggiungere della sera, quel disgraziato cercava chi lo avrebbe liberato dal grave peso che portava sulle spalle: un arconcello con due secchie colme di monete d’oro. Non voleva essere visto: faceva intravedere da dietro un cespuglio una mano che ostentava una moneta; se tu accettavi quel soldo e glielo prendevi, allora egli si sarebbe liberato dalla punizione. Tu, dannato al posto suo, eri costretto a portare le pesanti secchie con tutto l’oro finché non avresti trovato un altro, che a sua volta ti avrebbe reso libero accettando la moneta. CHIUSAFORTE
154. Là sù tai Cros al è un puest clamât la Bûse dai danâts. Sicome aì la mont a la frane di continuo, i vècjos ai dèvin la colpe ai danâts, ch’ai lavoràvin dì e gnot. I vècjos ai disèvin ancje che in tal paîs un om al ere muart sot il cjar ribaltât. Di gnot lu sintìvin simpri a vosâ: – Preait par me! Ajuto! Preait par me! E mê nône a la contave ch’ai vedèvin tancj muarts, cualchidun pa’ strade, cualchidun pa’ la grave o di chê bande da la siee, a lâ-sù di corse in Cjanin, condanâts dal Signôr. STÂI
Dannati
154. Lassù, nei pressi del borgo Cros, c’è una località chiamata "Buca dei dannati". Siccome la montagna frana in continuazione, i vecchi ne attribuivano la colpa ai dannati, costretti lì a lavorare giorno e notte. I vecchi raccontavano anche che in paese un uomo morì schiacciato sotto il suo carro, che si era ribaltato. Di notte lo sentivano urlare: – Pregate per me! Aiuto! Pregate per me! E mia nonna diceva che si vedevano spesso schiere di morti, condannati dal Signore, che correvano verso il monte Canin, chi lungo la strada, chi nel greto del torrente e chi dalle parti della segheria. POVICI
171. La sere dai Sants a’ si diseve in gleisie i matutins e dopo tal cimiteri il rosari di cuatri stanziis e dutis li’ prejeris dai muarts. Ogni famee a la steve vizin da li’ tombis dai siei muarts, ch’a li’ vignìvint ornadis ator ator cul muscli pui biel e pui vert, e parsôre cul savalon da l’Albe o cu la cjere da li’ farcadicis; par lunc a si faseve ancje une crous cu li’ cjandelis. Non fruts si podeve stâ fûr cu la scûse di tornâ a impiâ li’ cjandelis ch’a li’ murìvint cul àjar. Ai sonàvint li’ cjampanis par dutis li’ ànimis dai muarts fin a miegegnot la une e li’ fameis a li’ puartàvint simpri alc a chei ch’ai sonàvint: cjistignis, patatis, cigons dal lat, râs bolîts, vin e sgnape. A l’ere ancje l’usance di lasâ, la sere, i cjaldîrs plens di âghe cul cop dongje e, s’an’ vanzave, un poucje di polente, parceche i vècjos ai disèvint che li’ ànimis dai muarts, dopo un viaç cussì lunc, a li’ podèvint cjatâ almanco l’âghe di bêvi e la polente di mangjâ. OVEDAS.
La ricorrenza dei Santi
171. La sera dei Santi si recitavano in chiesa i mattutini e nel cimitero il rosario di quattro poste e tutte le preghiere per i defunti. Ogni famiglia si soffermava accanto alle tombe dei propri cari, che venivano ornate tutt’attorno con il muschio più bello e più verde, e sopra con la sabbia del rio Alba oppure con la terra che la talpa accumulava in superficie quando scavava le sue gallerie sotterranee; vi si costruiva pure una croce con le candele. Noi bambini potevamo restare fuori casa, con la scusa di riaccendere le candele che si spegnevano col vento. Le campane suonavano per le anime di tutti i defunti fino a mezzanotte-l’una e le famiglie portavano sempre qualcosa a coloro che scampanavano: castagne, patate, pannocchie immature lesse o cotte sulla brace, vino e grappa. C’era l’usanza, inoltre, di lasciare alla sera le secchie colme d’acqua con accanto il ramaiolo e, se avanzava, un po’ di polenta perché i vecchi dicevano che le anime dei morti, dopo un viaggio così lungo, potevano almeno trovare l’acqua da bere e la polenta da mangiare.OVEDASSO
174. Sot le’ Vuetis, in ta curve cuâsi in face al punt di Cjadramaç, fin pouc prime da le vuere dal Cuindis¸ al ere un cartel. Su chest cartel a l’ere piturade tal mieç le muart cu le fâlç, un om in tun cjanton il âlt e un âtri om in tun cjanton abas. Al ere scrit: "L’ore a le ven, l’om a nol ven. L’ore a le passe, l’om al sta masse". Chest cji fâs¸ rifleti: le muart a’ cji spiete simpri, anzi no ’le viout l’ore di brincâcji. RACOLANE
La morte attende…
174. In località "Sot le Vuètis", sulla curva quasi in faccia al ponte di Cadramazzo, fino a poco tempo prima della guerra 1915-’18 c’era un cartello. Su di esso erano dipinti: al centro la morte con la falce, in un angolo in alto un uomo e un altro uomo in un angolo in basso. C’era scritto: "L’ora viene, l’uomo non viene. L’ora passa, l’uomo ritarda troppo". Queste parole fanno riflettere: la morte ti aspetta sempre, anzi non vede l’ora di ghermirti. RACCOLANA
180. A l’è cuâsi sere che il Signôr e san Piêri ai rìvin in tun paisut, come Sclûse. San Piêri al poche sun tune puarte e a le ven fûr une fèmine, siore e prepotente, ch’a’ si met a vosâ: – Ben, ce voleiso a chesti’ oris? Vignîso a cirî le caritât ancje di gnot, cumò? Lait-vie, che no ài nue di dâus! – e ur siere le puarte in mûse. I doi a’ si cjàlin e san Piêri al dîs: – Atu vedût, Signôr? – Ài vedût, ài vedût, ma no ’mpuarte. No l’è nisune premure par pajâle. Pui indavant ai cjàtin une cjasute mîsare. Ai pòchin e a le venfûr su le puarte une femenute mâgre, mâl vistide, dute ingrisignide di freit: – Ce voleiso, po, benedets? – Sin pôrs, no vin nancje un zentêsin par lâ tal albergo… – Oh, in ce cjase che seis rivâts! Ancje non vin tante miserie che mai, però al è un puestut ta stale, tal cjaldin, dongje il troseit. Si contentaiso? – Sì, sì, sin contents! – Astu vedût – al dîs il Signôr a san Piêri – dolà ch’a l’è le miserie a l’è ancje le bontât! Tal indoman ai jèvin e ai van a ringraziâ le femenute: – Tantis graziis, siorute! Non disarin une prejere, ma ch’a le prei ancje jei. Il prin lavôr ch’a le fasarà vuei, a’ lu fasarà par dut il dì. E ai van. Jei no ’le capis¸ ce ch’ai volèvin dî e tra sè a le pense: – No son tant juscj chei doi aì, sarà colpe da le miserie… Dopo le fèmine ’le dîs al so om: – Chei doi pôrs a son lâts-vie e mi àn dit cussì e cussì… – Cui sa ce ch’ai volèvin dî – al ris¸punt l’om – Ma ai fruts, vuei, ce vino di dâ di mangjâ? No vin nue dal dut. Jò jo vevi metût vie un sôl zentêsin e vuei nus tocje doprâ chel. Le fèmine a le va a cjoli chel zentêsin tal armâr e dopo a’ si sente dongje le taule. Come che ’le poe il becin su le taule, chest a’ s i moltìpliche, a’ si moltìpliche… Alore ai àn capît ce ch’a le’ volèvin dî le’ peraulis di chei doi pôrs e fin cuant ch’al è vignût scûr lôr no ’i àn fat âtri che contâ bêçs: ai son diventâts siorons. Le fèmine triste, ch’a le vevemandât vie il Signôr e san Piêri le sereprime, a le ven a savê di chest fat ea le mande il so om a cirî i doi pôrsfin che ju cjate. A ju invide a cjase, aur fâs un mangjâ di siôr, a ur prepareun jet di lusso. Dopo vê ben mangjât,il Signôr e san Piêri ai van a durmî.Tal indoman ai jèvin e ai cjàtin su lepuarte le parone ch’a’ si spietave certisperaulis. E infati il Signôr a’ j dîs: – Jo le ringrazi, siore, da le sô biele ospitalitât, al vularà dî che il prin lavôr ch’a le fasarà le bunore, lu fasarà dut il dì. E ai van. – Astu sintût? – a le dîs le fèmine al so om – Cumò tirin-fûr ducj i bêçs e tachin a contâ e contin fin usgnot. Però prime al è miôr che vadi a fâ pipì, parceche dopo no varài timp di mòvimi: jo ài di contâ dut il dì. A le va a fâ le pipì, ma an’ fâs tante e tante, ch’a le mûr scjafoade! Chest al è stât il cjastîc dal Signôr. RACOLANEIl castigo del Signore
180. Sul far della sera il Signore e san Pietro giungono in un paese piccolo, come Chiusaforte. San Pietro bussa a una porta ed esce una signora ricca e prepotente, che si mette a urlare: – Cosa volete a quest’ora? Venite a chiedere la carità anche di notte? Andate via, non ho nulla da darvi! – e sbatte loro la porta in faccia. I due si guardano e san Pietro dice: – Hai visto, Signore? – Ho visto, ho visto, ma non importa. Non v’è nessuna premura per ricompensarla. Più avanti incontrano una misera casetta. Bussano e viene sull’uscio una donna magra, mal vestita, tremante dal freddo: – Cosa desiderate, benedetti? – Siamo poveri, non abbiamo nemmeno un centesimo per l’albergo… – Oh, in che casa siete capitati! Anche noi abbiamo tanta miseria, però ci sarebbe un posticino nella stalla, al calduccio, vicino alla mangiatoia. Vi accontentate? – Sì, sì, siamo contenti! – Hai visto – dice il Signore a san Pietro – dov’è la miseria, regna la bontà! L’indomani si alzano e vanno a ringraziare la donnetta: – Tante grazie, signora! Noi pregheremo, ma anche lei preghi. Il primo lavoro che farà stamattina, lo farà per tutto il giorno. E se ne vanno. Lei non comprende cosa vogliano dire e tra sé pensa: -Non hanno tanto giudizio quei due, sarà colpa della miseria… Dopo si rivolge al marito: – Quei due poveretti sono partiti; mi hanno detto così e così… – Chissà cosa volevano dire – risponde il marito – Ma ai bambini, oggi, cosa diamo da mangiare? Non abbiamo proprio niente. Io avevo risparmiato un solo centesimo e oggi dovremo spenderlo. La moglie prende dall’armadio quel centesimo e si siede al tavolo. Come appoggia la monetina, questa si moltiplica e si moltiplica… Allora comprendono il significato delle parole di quei due poveri e fino alla sera non fanno altro che contar soldi: sono diventati ricchissimi. La donna cattiva, che aveva cacciato il Signore e san Pietro la sera prima, viene a conoscenza di questo fatto e manda il marito in cerca dei due poveretti, finché li trova. Li invita a casa, prepara loro un pranzo da signori e un letto lussuoso. Dopo aver mangiato, san Pietro e il Signore vanno a dormire. L’indomani si alzano e incontrano sulla porta la padrona che si aspettava certe parole. E infatti il Signore le dice: – Io la ringrazio, signora, per la sua bella ospitalità, vorrà dire che il primo lavoro che farà questa mattina, lo farà per tutto il giorno. Poi se ne vanno. – Hai sentito? – dice la donna al marito – Ora prendiamo tutti i soldi che abbiamo e li contiamo, finché verrà sera. Però è meglio che prima io vada a fare la pipì, perché dopo non avrò tempo: dovrò contare tutto il giorno. Va a fare la pipì, ma ne fa tanta e tanta, che muore affogata! Questo è stato il castigo del Signore. RACCOLANA
188. – Li’ giusti’ santi’ cruzi’ dèbite nos, Deus noster; li’ giusti’ santi’ cruzi’ da li’ vuestris santìsimis mans. Pâri al ûl dî une Dòmine; pasion pâs di nobis. Oi, miserêre nobis! Audît e ascoltait: le gnot di Vìnars sant ce rimôr e ce trimôr ch’al fasè il gnostri Pâri glorious Gjesù Crist, ch’al ve spandût dut il so preziosìsim sanc, cjâr e prezious tanche une rosade, aziò che li’ gnostris ànimis segni salvadis. Deum e non Deum, sul prât di Gjusefat si larin e si scontrin in tal nemîc: oh, falso nemîc, cjan rineât, sta’ in là, no mi tocjâ, no mi tradî, che jo adori li’ mê’ santi’ cruzi’, chel ch’a li’ à ditis e chel ch’a m’a li’ à fatis dî. RACOLANE
Le giuste sante Croci…
(è un’antica preghiera di non facile interpretazione) 188. – Le giuste sante croci date a noi, Deus noster; le giuste sante croci dalle vostre santissime mani. Padre significa un solo Signore; passione, pace a nobis. Oh miserere nobis! Udite e ascoltate: la notte di Venerdì santo quale frastuono e quale terremoto provocò il nostro Padre glorioso Gesù Cristo, che versò tutto il suo preziosissimo sangue, caro e prezioso quanto una rugiada, acciò che le nostre anime fossero salve. Dio e non Dio, andremo al prato di Giosafat e ci scontreremo col nemico: oh, falso nemico, cane rinnegato, non t’avvicinare, non mi toccare, non mi tradire, ché io adoro le mie sante croci, colui che me le ha dette e colui che me le ha fatte dire. RACCOLANA
204. Tal lûc che cumò al è il cimiteri di sant Antoni, ancje une vôlte a l’ere une specie di cùpule di cjere, un cagol taront, tignût a prât. Une vôlte a la viveve alì une vecje che di gnot no la podeve mai durmî. Une dì, adore, a l’à sintût un sunsûr, a l’è jevade e a l’à vedût che ’la stave rivant une pocession e ’la entrave in cheste cùpule: a l’ere une grande procession cun tante int. Nisun al à vedût nue, nome cheste fèmine e ai àn dit che ’la lave fûr di cjâf. Però un omp ch’al stave in tune cjase dongje e ch’al seave il fen da la cùpule, une dì ch’al minaçave brut timp, al veve decidût di meti il fen sui pâi. Al è lât-jù a cjase a cjoli un pâr di pâi di fier e al à fat la bûse par plantâju, ma in tun moment un pâl al è colât dentri in ta cùpule e no lu àn plui cjatât: ai àn sintût ch’al è colât sun tun paviment, sprofondant cun tun sun metàlic. Cualchidun al à dit che la cùpule a l’è fate cul materiâl di cjarbon dal mont Corone, ma no l’è vere. Jò ’o ài sintût, che eri pìçule, doi todescs, che èrin vignûts a viodile, che a’ disèvin ch’a l’ere la tombe dai "Galli". PONTEIBE
La tomba dei Celti
204. Vicino al cimitero di sant’Antonio, ora come un tempo, c’è un prato con in mezzo una collinetta artificiale tonda. Nei pressi viveva una vecchina che di notte stentava a dormire. Un giorno, assai presto, ella sentì uno strano rumore, si alzò e vide tanta e tanta gente in lunga processione che avanzava verso la collinetta, vi entrava e spariva. Nessuno si accorse di questo fatto, solo l’anziana donna, e pertanto la tacciarono di non aver la testa a posto. Però un vicino di casa, che solitamente falciava quel prato, un giorno in cui minacciava il brutto tempo decise di sistemare il fieno su alcuni sostegni. Andò a casa, prese un paio di pali di ferro e scavò le buche per piantarli, ma proprio sulla collinetta uno di essi sprofondò nel vuoto: lo si sentì cadere su un pavimento, emettendo un suono metallico. Questo palo non fu più recuperato. Qualcuno asseriva che la collinetta era nient’altro che un accumulo di scarti di carbone provenienti dal monte Corona, ma non è vero. Da bambina, io avevo sentito due tedeschi, venuti a visitare il luogo, affermare che quella era una tomba dei Galli-Celti. PONTEBBA
206. Le nône da le Baise a le contave che tancj agns fa a Racolane a l’ere dome cualche cjase. Il paîs al veve di jessi fat a Santaviele, dolà ch’a son i prâts, ma al ere perìcul di clapons ch’ai rodolàvin-jù dal Jame. I vècjos ai àn sielzût il puest dolà ch’al è il paîs cumò parceche aì no son mai vignûtsjù clas. Cun di pui in cualche prât parsôre le’ cjasis (cumò ormai a son dome pins) ai àn provât ancje a samenâ le siele e ai àn vedût ch’a le creseve ben. Là sù a le’ làvin a pasonâ le’ piouris; di lôr a le’ stèvin atentis le’ frutinis, ch’a si portàvin daûr il fûs e le rocje par filâ le lane: eco parceche il paîs a’ si clame Rocolane… Racolane! RACOLANE
Così nacque Raccolana
206. La nonna della Bàise narrava che tanti e tanti anni fa a Raccolana esisteva soltanto qualche casa. Il villaggio sarebbe dovuto sorgere nella località prativa di Santaviele, ma v’era il pericolo di caduta di massi che rotolavano giù dal monte Jame. I vecchi scelsero il luogo dove attualmente si trova il paese perché lì non si era mai verificata alcuna frana. Inoltre in alcuni prati sovrastanti il borgo (ora invasi da pini) avevano sperimentato la coltivazione della segala, che aveva dato buoni risultati. Lassù andavano al pascolo le pecore; ad esse badavano le bambine, che portavano con sé il fuso e la rocca per filare la lana: ecco perché il paese si chiama Roccolana… Raccolana! RACCOLANA
208. Cuant che mê nône a l’ere pìçule, un frâri di Glemone al ere vignût a Resiute a predicjâ e, come ch’a’ si usave, a cirî la caritât. La int, però, no j à dati nue. Alore il frâri al à cjapât-sù il sac vueit, a’ si è inviât par tornâ a Glemone, a’ si è voltât viers il paîs e al à dit: – Se ves di murî achì a Resiute, no lasares nancje la mê çavate, parce-ch’al è un paîs cence sorêli, maledît dal Signôr, circondât di doi torents e ai vìvin i malvivents! STÂI
Un frate disse la sua…
208. Quando mia nonna era bambina, un frate di Gemona venne a Resiutta a predicare e, com’era usanza, a chiedere la carità. La gente, però, non gli diede nulla. Allora il frate raccolse il sacco vuoto, s’incamminò sulla via del ritorno, si girò verso il paese e disse: – Se dovessi morire qui, a Resiutta, non vi lascerei nemmeno le mie ciabatte, perché è un paese senza sole, maledetto dal Signore, stretto fra due torrenti e abitato da malviventi. POVICI
214. Une vôlte une regjine a l’è passade pa’ la strade, là jù dal puint di Mueç, chel vecjo di len. Forsi a l’ere la regjine Ane, la fèmine di Carli IV, ch’a’ si ere fermade a Resiute a gustâ, in ocasion dal viaç fat par lâ a Rome a incuintrâ il so omp che l’an prime, tal 1354, al ere stât incoronât imperadôr dal pape. Cheste regjine là jù, sul puint, a l’à dit: – Moggio, sei ricco e non sai di esserlo! A’ si riferive al tesaur che al è platât ta galarìe dai frâris, clamade cussì dopo fondade l’abazìe. La galarìe, però, a l’ere ancjemò prime, a l’è stade fate ai timps dal cjascjiel dal Cacelin e ’la servive par podê scjampâ, in câs di assedi, o par sicurece. In cheste galarìe, duncje, al è stât platât un tesaur: une glogje cun siet poleçs d’aur. Ai disèvin che la glogje ’la fos stade grosse come un purcit di grasse e che i poleçs ’i fòssin stâts grancj come gjalinis par fâ brût. E cuissà ce tante roube di valôr che i frâris ai varan platât ta galarìe vie pal timp! Su cheste glogje su chescj poleçs, sul fat da la galarìe a’ si è tant fantasticât, a’ si è tant lavorât parsôre cul cjâf, a’ si è tant cirût ta Cjalderate, fra chês foranatis pericolôsis, tra chei poçs scûrs, cuâsi nêris, fra chês sclapaduris di crets. Par dut al sameave di viodi l’ingres da la galarìe. E cussì, sgarfe e picone, sgarfe e picone par cjatâ alc... Ma no si è mai cjatât nie! MUEÇLa chioccia e i pulcini d’oro
214. Una volta una regina stava percorrendo la strada nei pressi del ponte di Moggio, quello vecchio, di legno. Forse si trattava della regina Anna, moglie di Carlo IV, che si era fermata a pranzare a Resiutta mentre si stava recando a Roma ad incontrare suo marito, incoronato imperatore dal papa l’anno prima, nel 1354. Quando fu sul ponte, la regina esclamò: – Moggio, sei ricco e non sai di esserlo! Si riferiva evidentemente al tesoro nascosto nella galleria dei frati, così chiamata dopo che era stata fondata l’abbazia. La galleria, però, esisteva già da prima, dai tempi della costruzione del castello di Cacellino, e serviva per fuggire in caso di assedio, o per motivi di sicurezza. In questa galleria, dunque, fu nascosto un tesoro: una chioccia e sette pulcini d’oro. Si raccontava che la chioccia fosse stata grossa come un maiale da ingrasso e che i pulcini fossero stati grandi come galline da brodo. E chissà quanti oggetti di valore avranno nascosto i frati nella galleria col passar del tempo! Su questa chioccia, su questi pulcini, sull’esistenza della galleria si è tanto fantasticato, si è tanto congetturato, si è tanto cercato in località Cjalderate, in quelle cavità rupestri pericolose, in quei pozzi tetri, quasi neri, nelle fenditure delle rocce. Sembrava di vedere dappertutto l’ingresso della galleria. E così fruga e piccona, fruga e piccona per trovare qualcosa... Ma non si è trovato mai nulla! MOGGIO
222. Le canìcule a l’ere une femenate dute sbregade che, parade fûr di cjase, a le lave ator fasint dispiets par vendete cuintri l’umanitât. Un dai dispiets al ere chel di samenâ i filions pai rius, d’astât. Infati, cuant che in avost a’ si lave in mont, nus racomandàvin di no cjoli cul fiasc l’âghe da le’ pocis, parcech’a le’ èrin plenis di filions. Il filion al è come un fîl blanc, lunc, trasparent, gjelatinous, cun tune pontute nêre di une bande e cu le code a spiç di chê âtre: al prolìfiche in tal cjâlt dal meis d’avost. In ta mont tu beis diretamenti l’âghe dal fiasc e no tu cji nacuarts di parâ-jù ancje i filions, che dopo cji pestin i bugjèi. Nus disèvin ancje di no bêvi l’âghe dai rius, parcech’a l’ere malade. Difati al è vêr: tal timp da le canìcule il perìcul nol ven dome dai filions, ma ancje da l’âghe stesse, ch’a le fâs come un voltolon tal cuarp. RACOLANE
La canicola
222. La canicola era una brutta donna stracciona che, cacciata da casa, andava in giro facendo dispetti per vendetta contro l’umanità. Uno dei dispetti consisteva nel seminare vermi filiformi nei ruscelli, d’estate. Infatti,quando d’agosto si andava in montagna, ci raccomandavano di non raccogliere col fiasco l’acqua stagnante delle pozze, perchè erano ricche di questi vermi filiformi. Tale verme è come un filo bianco, lungo, trasparente, gelatinoso, con una piccola punta nera da una parte e con la coda aguzza dall’altra: prolifica col caldo del mese di agosto. In montagna tu bevi direttamente l’acqua dal fiasco e non ti accorgi di ingerire anche i vermi, che poi ti perforano le budella. Ci consigliavano anche di non bere l’acqua dei ruscelli, perchè era insana. Difatti è vero: nel periodo della canicola il pericolo non viene solamente dai vermi filiformi, ma pure dall’acqua stessa, che mette in subbuglio il corpo. RACCOLANA
223. Le canìcule a le ven il meis di luj, ai 20, e a’ si ferme fintramài il 20 di avost: no si sa ce ch’a l’è – a’ son mìcrobos? – ma a le ven ogni an, ogni an. In chel perìodo il cuarp al lavore: al è fàzil ch’al vegni mâl di panze, bisugne stâ atents a ce ch’a’ si mangje, si scuen fâ boli ben l’âghe. A le lavore ancje l’âghe: a le fâs chei viers luncs ch’a’ si clàmin filions e ch’ai son periculous parcech’a’ cji fòrin i bugjèi, ai van ator pal cuarp e tu mûrs. Prime di bêvi l’âghe dai rius, a’ si le filtrave cun tun peçot; m’impensi che cualche vecje a le doprave ancje il fazolet di nâs sporc di tobac di Sante Ustine. CJU CÂLI
La canicola
223. La canicola arriva il mese di luglio,il 20, e si ferma fino al 20 agosto: non si sa cosa sia – sono microbi? – ma viene ogni anno, infallibilmente. In quel periodo il corpo lavora: facilmente viene mal di ventre, bisogna stare attenti a ciò che si mangia, si deve far bollire bene l’acqua. Anche l’acqua lavora: fa quei vermi lunghi che si chiamano "filions" e che sono pericolosi perché forano l’intestino, si propagano per il corpo e causano la morte. Prima di bere l’acqua dei ruscelli, la si filtrava con un pezzo di stoffa; ricordo che qualche vecchia usava addirittura il fazzoletto da naso sporco di tabacco di Santa Giustina. CHIOUT CALI
235. Mê nône ’la contave che une vôlte une fèmine dai Stâi ’a tornave a cjase dopo jessi stade a messe grande in ’bazìe. Passât il zimiteri, j è comparît un madrac ch’a’ l’à compagnade jù fin dapît di Rûte, du’ ch’a l’ere une imàgjine. Rivade aì, inveze dal madrac j è comparide une siore che j à diti: – Va’ vie tal prât, dongje chel morâr: in tune casselute jo ài platât i bêçs. Cheste fèmine, incjimò spauride dal madrac, no l’à volût lâ. Alore la siore j à diti: – Jo cji maledìs par siet jetis: us vignarà la stele! E difati fin i parints di cheste fèmine, ch’ai stan a Mujese, àn la stele! STÂI
La maledizione della ciocca bianca
235. Mia nonna raccontava che una volta una donna di Stavoli stava tornando a casa dopo aver assistito alla messa grande in abbazia. Subito dopo il cimitero le si presentò un serpente, che la seguì fino in fondo al paese, a Rûte, dove c’era un’edicola. Lì, il serpente prese le sembianze di una signora che le disse: – Va’ nel prato, accanto a quel gelso: in una cassetta ho nascosto dei soldi. La donna, ancora spaventata dal serpente, non vi volle andare. Allora la signora continuò: – Maledico te e le tue sette future generazioni: tutti avrete un ciuffo bianco di capelli sulla fronte! E difatti perfino i parenti di quella malcapitata, che abitano a Moggessa, portano in fronte una ciocca bianca! STAVOLI
236. Une vôlte a Cuestemulin al viveve un om ch’al veve non Fortin. Al ere grant e gros, plen di fuarce, tant che une dì, su par Tarvis, al ere stât metût dentri in galere parcech’al veve barufât, ma al è rivât a butâ su le puarte di fier da le pereson e a scjampâ cun jei su pa’ le schene; dome cuant ch’al ere rivât dongje Nevee al à pojât le puarte sun tun clap (che dopo lu àn clamât "Clap Fortin") par polsâ... A Cuestemulin al faseve il pastôr e nisun s¸’impaçave cun lui, par vie da le sô fuarce. Ma une dì al è capitât là sù un furlan da le Basse ch’al veve savût di chest om robust e lu voleve sfidâ. Al è lât a cirî il Fortin e a’ lu à cjatât in cjase, ch’al mangjave le’ cartùfulis ch’al veve metût a cuei sot le’ boris. l furlan a’ j à diti: – Sestu tu chel om tant fuart? Jo no crout, se tu mangjis dome cartùfulis! Il Fortin, cence fâsi preâ, a’ lu à cjapât e j ’nd’à datis tantis, che chel da le Basse a’ no si è pui fat viodi. SCLÛSE
Fortin
236. Una volta a Costamolino viveva un uomo di nome Fortin. Era grande e grosso, molto forte, tanto che un giorno dalle parti di Tarvisio, messo in galera perché aveva litigato, era riuscito a scardinare la porta in ferro della prigione e a fuggire con essa sulla schiena; solamente quand’era giunto in prossimità di Sella Nevea depose la porta su un masso (che da allora venne chiamato "Clap Fortin") per tirar fiato... A Costamolino egli faceva il pastore e nessuno gradiva impicciarsi con lui, ch’era così forte. Ma un giorno capitò lassù un friulano della Bassa che aveva sentito parlare di quell’uomo tanto robusto e lo voleva sfidare. Cercò Fortin e lo trovò in casa, che mangiava le patate messe a cuocere sotto le braci. Il friulano gli disse: – Sei tu l’uomo così forte? Io non ci credo, visto che mangi solamente patate! Fortin, senza farselo dire due volte, lo prese e gliene diede tante che l’uomo della Bassa non si fece più vedere. CHIUSAFORTE
245. Cuanche l’abazìe di Mueç a la comandave par dut chest teritori, agnons e agnorums fa, ogni famee a la scugnive portâ al preidi il cuarteis: un cuart di patatis, un cuart di blave, un cuart di formadi, un cuart di gjaline, insome, un cuart di dut. Al ven che une dì a Ovedas, forsi stufs di cheste usance e ancje par fâ dispiet, ai àn cjapât une favite, a l’an splumade, a l’àn tajade in cuatri e ai àn picjât un cuart a une grosse stangje: cuatri zòvins a’ son lâts a portâlu vie in abazìe. Là vie vuàrdicji: par òrdin dal abât i cuatri a son stâts metûts a la berline e ognun ch’al passave al ere obleât a spudâur. No content, l’abât al à mandât a chei di Ovedas la maledizion che nisun al fos diventât siôr. OVEDAS
Un quarto di scricciolo
245. Quando l’abbazia di Moggio estendeva il suo dominio sul territorio circostante, anni e anni addietro, ciascuna famiglia era costretta a portare al prete un quarto del raccolto di patate, un quarto di granoturco, un quarto della produzione di formaggio, un quarto di gallina, insomma un quarto di tutto. Un bel giorno a Ovedasso, forse stanchi di questa usanza e anche per dispetto, alcuni catturarono uno scricciolo, lo spennarono, lo tagliarono in quattro ed una parte fu appesa ad una grossa stanga: quattro giovani la trasportarono fino in abbazia. Là scoppiò il putiferio: per ordine dell’abate i quattro furono messi alla berlina o ognuno che passava di lì era obbligato a sputar loro addosso. Non contento, l’abate mandò agli abitanti di Ovedasso una maledizione: nessuno di loro sarebbe diventato ricco. OVEDASSO